Il governo dell'eversione
Prima di un’alleanza repubblicana occorrerebbe una pedagogia civile capace di spiegare con la stessa forza suggestiva del populismo la bellezza di una democrazia imperfetta
Con questo articolo, Alessandro Barbano inizia la sua collaborazione con il Foglio
Vi è un’enorme differenza tra il voto a una persona, il voto a un partito e il voto a un principio. Si potrebbe dire che un sistema elettorale è meno democratico, cioè meno maturo in termini di sviluppo emozionale dell’individuo, quando l’accento è posto sul voto per il principio e per il partito e non per la persona. Per questo il referendum non ha nulla a che fare con la democrazia”. Lo sosteneva nel 1950, quasi settant’anni fa, in uno scritto per la rivista Human Relations, Donald W. Winnicott, figura di primo piano del movimento psicoanalitico della generazione successiva a Freud. Il saggio, contenuto in un vecchio libro, “Dal luogo delle origini”, Raffaello Cortina editore, 1990, raccoglie alcune conferenze e scritti fino ad allora inediti e dimostra quanto consonante fosse il pensiero dello psicoanalista inglese con l’idea, prevalente nel Dopoguerra tra gli intellettuali e nella società civile, che l’imperfezione della democrazia rappresentativa fosse, come spiegò Winston Churchill nel suo celebre aforisma, “la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”.
I contenuti eversivi sarebbero stati chiari nel secondo Dopoguerra, quando la democrazia non era una condizione naturale della società
L’eredità di Winnicott torna attuale in tempi in cui si fa strada l’idea del referendum permanente come sostituto fagocitatore della democrazia, senza che molti intellettuali italiani si avvedano del pericolo contenuto in questo slittamento del pensiero. Era chiaro allo psicoanalista come l’origine della democrazia fosse in prima istanza nel conflitto che s’instaura e si regola, all’interno della persona matura, tra le ragioni dell’Io e quelle dell’inconscio, e cioè nella capacità di riconoscere anzitutto dentro di sé il senso di quell’alterità che è condizione per accettare l’esistenza e la dignità umana dell’altro e per instaurare con questo una relazione dialettica fondata sulla disposizione a mettere in discussione le proprie convinzioni. “Nel referendum – scriveva ancora Winnicott – vi è poca maturità perché nella sua domanda c’è posto solo per l’espressione di un desiderio conscio. Non vi è rapporto tra il mettere il proprio segno accanto alla parola pace’ e il votare per una persona che desidera veramente la pace”.
Se oggi Grillo e Casaleggio professano la democrazia diretta e referendaria e vaticinano la morte dei parlamenti e la sostituzione delle libere elezioni con un sorteggio casuale, in grado di garantire per via probabilistica una rappresentanza proporzionata per età, reddito e composizione geografica, è troppo facile derubricare questi concetti all’intemperanza provocatoria di un comico e di un tecnocrate ignoranti, ancorché furbi. Bisogna piuttosto riconoscere che essi sono parte di un disegno strategico totalitario, che si è insinuato nella democrazia italiana, imponendosi alla coscienza delle masse grazie a una demagogia pervasiva, che in un decennio ha svuotato di senso le parole su cui si fondava il patto civile tra rappresentati e rappresentanti, tra cittadini e istituzioni. Con l’effetto di indebolire la delega, far divorziare il sapere dal potere, annullare la valenza simbolica dell’autorità, instaurare nel discorso pubblico un analfabetismo civile che ci fa vedere l’Italia peggiore di quanto sia nella realtà. E che disprezza tutte le forme della democrazia rappresentativa, azzerando nel lessico propagandistico ogni differenza tra le élite e la casta, tra il compromesso e l’inciucio, in nome di un’ideologia che, proponendosi di sterilizzare il potere, di negare ogni sua intrasparenza e ogni sua convenienza, riproduce nel pensiero politico la rimozione psicoanalitica del conflitto tra l’Io e l’inconscio.
Le élite intellettuali dovrebbero chiedersi che peso hanno avuto nello slittamento primitivo della società italiana le loro sottovalutazioni
L’archiviazione della persona, sottesa all’abiura della democrazia rappresentativa, coincide così con la regressione del cittadino a uno stato indifferenziato della coscienza, nel quale tutte le istanze individuali convivono nello stesso spazio come pretese intransigibili e proiettano verso la democrazia assediata e “corrotta” tutti i potenziali conflitti non riconosciuti e non gestiti, in nome di una democrazia altra, perfetta, perché diretta, disintermediata e orizzontale che, dietro l’illusione del primato della piazza, maschera la menzogna del dominio di pochi sui molti.
Il contenuto eversivo di questo progetto forse sarebbe stato più chiaro a molti intellettuali del secondo dopoguerra europeo, persuasi, tra le ceneri ancora calde dei disastri totalitari del Novecento, che la democrazia non fosse una condizione naturale della società, conseguita una volta per tutte, ma un punto delicatissimo di equilibrio in cui, per dirla ancora con Winnicott, “vi è una sufficiente maturità nello sviluppo emozionale di un numero sufficientemente grande di individui che vi sono compresi, perché possa esistere una innata tendenza verso la formazione, la riformazione e il mantenimento della macchina democratica”. La precarietà di questo equilibrio induceva lo psicanalista inglese a chiedersi quale percentuale di individui maturi fosse necessaria per stabilizzare una tendenza democratica e, ancora, quale percentuale di individui antisociali potesse essere contenuta in una società senza che la stessa tendenza si perdesse.
Non può dirsi che una simile preoccupazione abbia animato il pensiero e la penna di molti pensatori, ma anche uomini delle istituzioni, della politica e del sindacato, delle professioni e dell’impresa, del giornalismo e della cultura, che hanno sottovalutato o, addirittura, assecondato il dilagare di questa suggestione totalitaria nella società italiana. La loro acritica adesione si fondava, e in alcuni casi si fonda tutt’ora, su due motivazioni prevalenti. Le riassume in maniera “esemplare” un editoriale di Ernesto Galli della Loggia del novembre scorso sul Corriere della Sera. La prima riguardava l’ampiezza del consenso guadagnato già all’epoca nei sondaggi, e poi confermato nelle urne il 4 marzo scorso, dal Movimento Cinquestelle: non era possibile, secondo il pensatore di via Solferino, definire eversivi Di Maio e compagni senza etichettare allo stesso modo un terzo della società italiana che ne condivideva le tesi e un altro terzo che, astenendosi dal voto, di fatto censurava i partiti per così dire tradizionali che si erano fino a quel momento avvicendati al governo. La stessa censura coincideva con la seconda motivazione: non si possono definire eversivi, scriveva Galli della Loggia, “gli italiani che vogliono cambiare le cose, molte cose: sicuramente troppe tutte insieme e magari anche senza sapere bene come, senza avere un’idea precisa del rapporto tra mezzi e fini. Ma è altamente probabile — perlomeno probabile, mi pare — che per la gran parte i cambiamenti che essi vogliono sono più o meno condivisi dalla maggioranza dell’opinione pubblica”. Per parlare di eversione, secondo lo storico editorialista, ci voleva “qualcosa di diverso dalle parole, dalla critica sia pure la più aggressiva, sommaria e insulsa: e cioè la violenza. Vale a dire uno strumento concreto e palesemente illegale” che, a suo giudizio, era del tutto assente.
Il linguaggio della democrazia si è ridotto a un registro binario, fondato sull’alternanza tra invidia sociale e paura. E’ ora di rileggere Winnicott
Chissà se oggi Galli della Loggia, che pure dimostra negli ultimi suoi editoriali di aver cambiato qualcosa del suo pensiero, riscriverebbe quelle parole dopo le ultime profezie di Grillo e Casaleggio sulla morte del Parlamento, e dopo due mesi di governo giallo-verde in cui la sete di radicalismo espressa dai nuovi inquilini del Palazzo è stata pari solo alla bramosia con cui hanno preso ad occupare e a spartirsi ogni spazio di potere disponibile. Chissà se oggi accetterebbe il monito con cui un altro intellettuale, Biagio De Giovanni, dalle colonne del Mattino lo esortava a considerare eversivo, in una situazione democratica, chi immagina se stesso e il movimento di cui è parte come protagonista di una palingenesi, fondata su una drammatica semplificazione, attraverso la quale ci si propone di abbattere e superare quel luogo, il Parlamento, in cui pure dovrebbe formarsi attraverso le parole il linguaggio di una nazione, e che invece è utilizzato ormai, in nome di un neo primitivismo democratico, come camera di risonanza di ciò che vive al di fuori di esso, nella democrazia diretta della rete e del blog familiare e familista che la guida e la controlla pervasivamente da una centrale tecnocratica non elettiva. Chissà se Galli della Loggia riconoscerebbe oggi che “eversiva rischia di diventare un’opinione pubblica che si forma così, con questi canoni, con la violenza di una sola parola che vale metaforicamente un colpo di pistola”. Poiché l’effetto eversivo – ricordava De Giovanni – sta nella moltiplicazione che questa propaganda ha su grandi masse divenute orfane delle loro tradizionali mediazioni politiche.
Nel frattempo, come certificano i più recenti sondaggi, il linguaggio della democrazia si è ridotto a un registro binario, fondato sull’alternanza tra invidia sociale e paura. Non solo e non più perché così parlano i nuovi signori alleati a Palazzo, ma perché così ha preso a ragionare una gran parte dei cittadini italiani. Del resto, il contratto senza alleanza che regola i conti tra i vincitori delle elezioni, le prime iniziative del governo e i propositi annunciati dai singoli ministri, dai muri di Salvini al giustizialismo di Bonafede, alla visione pauperistica, antindustriale e protezionistica degli interventi di Di Maio e Lezzi, hanno nella paura e nell’invidia il loro carburante ideologico. Facendo leva su questi due sentimenti collettivi, la nuova leadership grillo-leghista si propone ora di blindare la sostituzione di potere messa in atto e di smussare le contraddizioni che iniziano già ad emergere tra promesse, aspettative e realizzazioni concrete.
C’è da interrogarsi sulla debolezza di un pensiero civile che ha ceduto alla tentazione decostruttiva di giocare sulle imperfezioni della democrazia
Chi volesse finalmente fare autocritica sull’atteggiamento delle élite intellettuali negli ultimi dieci anni dovrebbe chiedersi che peso hanno avuto in questo slittamento primitivo dell’intera società italiana le sottovalutazioni e le fascinazioni come quelle raccontate in quest’articolo. E interrogarsi sulla debolezza di un pensiero civile che troppo spesso ha ceduto alla tentazione decostruttiva di giocare sulle imperfezioni della democrazia italiana, spingendo spesso la censura ben oltre le responsabilità pure non trascurabili dei partiti tradizionali. Chi invece volesse sfidare politicamente lo spirito dei tempi, dovrebbe comprendere che prima di un’alleanza repubblicana, sostenuta da una leadership credibile, occorrerebbe una pedagogia civile, capace di reintermediare un’opinione pubblica sfiduciata, e un’estetica della complessità, capace di spiegare con la stessa forza suggestiva del populismo la bellezza di una democrazia imperfetta, che torni ad avere al centro, dalla legge elettorale fino alle alleanze di governo, le persone e il valore della relazione tra queste. Ma una pedagogia civile e un’estetica della complessità richiedono un investimento di medio-lungo periodo, non nascono e non prosperano nell’urgenza di una stagione elettorale, eterna e unica coordinata temporale di leadership di corto respiro.