Ecco come il Pd ha perso sei milioni di voti dal 2008 a oggi
Su Luiss Open l'analisi della crisi della sinistra in dieci grafici
Sei milioni di voti persi in dieci anni. Per la precisione 5.958.242. Dal 4 marzo il Pd non pensa ad altro. E, soprattutto, continua a discutere e dividersi sulle domande che questa caduta libera porta con sé: come è stato possibile? Cosa abbiamo sbagliato? Com'è possibile recuperare gli elettori persi?
La risposta all'ultima domanda, ovviamente, spetta ai vertici del partito (e forse qualche idea in più potrebbe arrivare dalla cena tra Carlo Calenda, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Marco Minniti). Sulle prime due, invece, qualche indicazione può arrivare dall'analisi dei dati. È quello che ha fatto il professor Roberto D'Alimonte, direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss e direttore del Centro Italiano Studi Elettorali (Cise), che su Luiss Open ha cercato di spiegare in dieci grafici “la crisi della sinistra italiana”.
Il primo dato riguarda per l'appunto i quasi 6 milioni di voti persi in 10 anni. Se si guarda alle percentuali il Pd è passato dal 33,2 per cento al 18,7 per cento. Se si confrontano le elezioni del 2013 con quelle del 2018, il calo maggiore si è registrato al Centro (-8,8 per cento), seguito dal Sud (-7,5 per cento) e dal Nord (4,9 per cento).
Dove sono andati questi voti? Un sondaggio Itanes indica che una buona percentuale si è spostata dal Pd al M5s. E i motivi, stando all'analisi di D'Alimonte, sono principalmente due. Il primo è che il Pd si è progressivamente allontanato dalle classi sociali meno abbienti. Oggi, secondo un sondaggio del Cise, più è alta la classe sociale, più cresce la propensione a votare i Democratici.
Secondo motivo è che su temi storicamente di sinistra come “combattere la disoccupazione”, “ridurre la povertà”. “introdurre un salario minimo”, “ridurre le differenze di reddito”, “introdurre un reddito di cittadinanza” il M5s è considerato più credibile del Pd. Certo, qualcuno potrebbe eccepire che alcune di queste battaglie, come quella sul reddito di cittadinanza, non è stata mai portata avanti dai Democratici ma in generale, quando si parla di lotta alla disuguaglianza, i Cinque Stelle risultano più credibili.
Al contrario il Pd risulta più “credibile” quando si parla di vaccini, difesa dell'euro e dell'Unione europea, difesa delle leggi sulle unioni civili e sul testamento biologico.
Ma c'è un tema, centrale nel dibattito di oggi, su cui il partito ha sicuramente sbagliato. O meglio su cui il Pd ha creato una distanza tra sé e i propri elettori. D'Alimonte la chiama “l’immigrazione sottovalutata”.
“Mentre su economia e diritti civili tutti gli elettori sembrano gravitare in un’area culturale 'social-democratica' - scrive D'Alimonte -, sulla globalizzazione essi si dividono equamente. Il dato eclatante riguarda però l’immigrazione; in questo campo gli elettori gravitano quasi tutti su posizioni 'conservatrici'. Gli elettori del Pd sono più a sinistra degli altri sui flussi migratori, è vero, ma comunque la maggioranza di loro si dice a favore di un limite al numero di migranti da accogliere”.
E c'è un dato ancora più significativo. Nella primavera del 2015, cioè tre anni prima delle elezioni, Cise realizzò un sondaggio insieme a Stanford University (immagine sotto). Ebbene, scrive D'Alimonte, “quasi l’80% dei sostenitori del Pd era a favore della riduzione del numero di immigrati (punto “Ds” nel grafico) ma soltanto il 40% del complesso degli elettori (punto “D” nel grafico) e circa il 50% degli stessi sostenitori del Pd (punto “D*”) pensava che il partito volesse ridurre il numero di immigrati”.