I costi della politica valgono poco
Parlamento, comuni, regioni: gli sprechi sono già stati in parte aggrediti nelle legislature precedenti e in questa. Perché non sarà il taglio degli stipendi dei parlamentari a risolvere i problemi della finanza pubblica
Pachidermi&Pappagalli, a cura del Think tank di studenti di economia Tortuga, è la rubrica dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano diretto da Carlo Cottarelli.
Il tema dei costi della politica ha animato per anni il dibattito pubblico italiano, ritagliandosi un ampio spazio mediatico. Alcuni sondaggi hanno indicato il taglio degli stipendi dei parlamentari tra le priorità per il nostro paese. Ma quanto varrebbe un taglio dei costi della politica? Rispetto alle misure di spesa aggiuntiva previste dalla legge di bilancio 2019, molto poco. Rispetto alle dimensioni del bilancio dello stato, ancora meno. Ciò non significa che non si debba fare uno sforzo per ridurre tali costi, perché se si vogliono ridurre gli sprechi nella spesa pubblica non si possono escludere quelli di cui beneficiano i decisori. Ma occorre mettere le cose nella giusta proporzione, per evitare di illudere i cittadini che riducendo i costi della politica si possano risolvere i problemi della finanza pubblica italiana.
Cosa sono i costi della politica
Prima di tutto, è da definire cosa si consideri con i termini “costi della politica”. Si intendono – nella nostra definizione – le spese di funzionamento degli organi della pubblica amministrazione di natura politica. Non si intendono dunque solo i costi degli stipendi dei rappresentanti eletti, ma anche quelli dei funzionari che lavorano in questi organi. Ne sono parte dunque, ad esempio, i costi di funzionamento della Camera e del Senato, dei gabinetti dei ministeri, degli enti istituzionali di comuni e regioni, delle direzioni delle Asl e degli organi delle società partecipate.
Di quanto parliamo
Fino ad alcuni anni fa il costo complessivo si aggirava attorno ai 5 miliardi di euro, una cifra esigua rispetto ai circa 775 miliardi di spesa pubblica primaria, circa lo 0,6 per cento. A titolo di esempio, la Camera dei deputati costa allo stato poco meno di 950 milioni di euro, mentre il Senato della Repubblica circa 500 milioni. I costi dell’indirizzo politico dei ministeri (uffici di gabinetto e di diretta collaborazione dei ministri) si aggirano attorno a poco meno di 200 milioni all’anno. I consigli regionali e gli organi istituzionali regionali spendono circa 1,4 miliardi di euro.
Si comprende dunque come il taglio degli sprechi della politica, seppure utile, non sia certo una soluzione sufficiente per risolvere i problemi della finanza pubblica italiana o che possa finanziare ingenti voci di nuova spesa pubblica prevista, come lo strumento per il contrasto alla povertà, i pre-pensionamenti e il taglio delle imposte. Gli ordini di grandezza sono estremamente diversi. Tuttavia non si può nascondere l’alto valore simbolico di provvedimenti di taglio agli sprechi della classe politica: in un periodo di elevata sfiducia nei politici e negli stessi organi istituzionali il taglio di alcune spese ingiustificate e sproporzionate, dal punto di vista di equità e del confronto internazionale, può contribuire a un ritorno alla fiducia. Non solo: come scrive l’ex consulente per la spending review Roberto Perotti, il taglio dei privilegi può essere un buon viatico per rendere più accettabile a parte dell’elettorato un piano di revisione della spesa pubblica, in senso più efficiente e più equo.
Cosa è stato fatto in passato
La lista degli interventi più importanti degli anni recenti, fino all’inizio del 2018, è interessante per comprendere i cambiamenti che hanno modificato parte della spesa per il sostenimento della politica.
• A fine 2011 su iniziativa dei presidenti delle camere Fini e Schifani, e a seguito delle pressioni del ministro Fornero, viene riformato il sistema previdenziale dei parlamentari, con l’abolizione del vitalizio per quelli eletti dopo il 2012. Di conseguenza, dal primo gennaio 2012 è scattato un sistema contributivo per i parlamentari neo-eletti e misto per quelli ancora in carica o rieletti. Fino ad allora, i parlamentari con un mandato ottenevano 2.486 euro lordi al mese dai 65 anni in poi, 4.973 euro dai 60 anni con due, 7.460 euro con tre, sempre da 60 anni. Questo significò un risparmio che possiamo stimare intorno ai 75 milioni l’anno, al netto delle trattenute Irpef. Occorre comunque notare che il sistema attuale applicato ai parlamentari non è esattamente quello applicato agli altri cittadini: i contributi versati, al compimento dell’età di pensionamento, rendono comunque una pensione anche se non viene raggiunto il minimo contributivo di 20 anni richiesto per gli altri cittadini.
• Dal 2012, inizia un’opera di revisione della spesa presso la presidenza del Consiglio, che negli anni riduce i suoi costi del 30 per cento, per un risparmio totale all’anno (nel 2016 sul 2011) di 112 milioni al netto dell’inflazione. Nel 2017 però la spesa torna a salire e dovrebbe crescere ulteriormente con la legge di bilancio per il 2019 per la creazione di una nuova struttura di missione per coordinare le spese di investimento, descritta fra qualche paragrafo;
• Nel 2013, il governo Letta elimina le indennità di carica, abolendo la possibilità per un membro del governo e allo stesso tempo parlamentare di ricevere un doppio stipendio, per un risparmio a regime di poco più di 1 milione;
• Nel 2013, il governo Letta con il decreto legge n. 149/2013 riforma il finanziamento pubblico diretto ai partiti, prevedendo riduzione progressiva fino al 2017 del finanziamento, per 19 milioni di risparmio all’anno dal 2017 ;
• Nel 2014 il governo Renzi introduce un tetto alla retribuzione dei dirigenti pubblici, a 240.000 lordi all’anno (decreto legge n. 66/2014) – limite valido per i dirigenti della pubblica amministrazione e società partecipate, al di fuori delle società quotate o che utilizzano pubblico risparmio;
• Sempre nel 2014, lo stesso governo dà atto alla riforma delle province (legge n. 56/2014) – abolizione dell’elezione diretta dei rappresentanti provinciali e istituzione di un’elezione indiretta tra sindaci e consiglieri comunali. Il risparmio sarebbe stato intorno ai 500 milioni all’anno, ma il grosso di questa cifra è costituito dai tagli alle spese per il personale e non solo i costi della politica, ridotti in modo molto inferiore;
• Nel 2016 il governo Renzi propone una riforma costituzionale che avrebbe ridotto i costi della politica si circa 160 milioni. La riforma è stata tuttavia bocciata nel referendum confermativo popolare.
Come si vede, gli interventi hanno prodotto risparmi nell’ordine di alcune decine di milioni di euro strutturali. Infatti, misure di questo tipo difficilmente sono sufficienti per individuare le coperture di massicci interventi di spesa pubblica o di riduzione di imposte che si prospettano nel contratto di governo sottoscritto dalle forze dell’attuale maggioranza parlamentare e che l’esecutivo ha intrapreso nei primi mesi di attività. Nel grafico in basso è possibile osservare il confronto tra la spesa per il reddito di cittadinanza prevista nella legge di bilancio 2019, confrontato con i risparmi annuali delle principali misure di spending review dei costi della politica applicate nei precedenti sette anni.
Le misure del governo Conte
Nel contratto di governo firmato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini è previsto un capitolo dedicato al taglio dei costi della politica. Gli interventi che si prospettavano nel documento sono il taglio dei vitalizi per i parlamentari e i consiglieri regionali andati in pensione e la riforma del sistema pensionistico per i parlamentari e i dipendenti degli organi costituzionali (non si specifica però in che termini). Sono contenuti inoltre i tagli ad auto blu, aerei di stato e i servizi di scorta personale. In un altro capitolo, riguardo le riforme istituzionali, si è previsto di ridurre i parlamentari a 400 deputati e 200 senatori e di abolire il Cnel, misure che potrebbero portare a un risparmio complessivo massimo per poco più di 200 milioni di euro . Da alcune settimane si parla anche di un taglio agli stipendi dei parlamentari, che tuttavia non è stato ancora quantificato. Una cifra irrisoria rispetto ai più di 100 miliardi necessari in cinque anni per finanziare l’intero programma di governo.
Una prima misura, l’abolizione dei vitalizi per i parlamentari che hanno partecipato a legislature precedenti al 2012 è stato approvato dall’Ufficio di presidenza della Camera nel giugno 2018, per un risparmio di circa 40 milioni l’anno. Anche il Senato ha scelto la stessa strada il 16 ottobre scorso, portando 16 milioni di risparmi previsti. Sui vitalizi ai politici è stato previsto anche un preciso strumento in legge di bilancio : una riduzione dell’80 per cento dei trasferimenti, al di fuori di quelle destinate al Servizio Sanitario Nazionale, per regioni e province autonome che entro quattro mesi non “provvedano a rideterminare […] la disciplina dei trattamenti previdenziali e dei vitalizi già in essere” per ex presidenti di Regione, consiglieri regionali e assessori. Secondo la relazione tecnica della legge di bilancio i risparmi non sono quantificabili.
Per quanto riguarda invece i voli di stato, i ministri Toninelli e Di Maio hanno annunciato la dismissione dell’aereo di stato, un Airbus 340-500, acquistato in leasing nel 2015 dalla presidenza del Consiglio attraverso il ministero della Difesa, ipotizzando un risparmio di circa 150 milioni in nove anni. Inoltre, il numero di voli di stato riportati sul sito della presidenza del Consiglio è visibilmente calato (da giugno a ottobre 2018 si è passati da 133 a 33 nello stesso periodo rispetto all’anno precedente).
Il governo Conte, pur ponendosi l’obiettivo di ridurre i costi dei politici, talvolta ha preso anche decisioni in senso opposto. Il governo ha proposto in legge di bilancio l’istituzione di InvestItalia presso la presidenza del Consiglio, un organismo volto a fare da cabina di regia per gli investimenti pubblici che comporterà una spesa aggiuntiva di 25 milioni (il 22 per cento dei risparmi conseguiti da Palazzo Chigi tra il 2011 e il 2016 ).
Quanto spendiamo rispetto agli altri paesi?
Ma i costi della politica in Italia sono più alti che negli altri paesi? Rispondere è complicato perché i dati non sono sempre comparabili. Si può ad esempio paragonare il costo dei diversi parlamenti, compito arduo visto il fallimento della commissione Giovannini che nel 2012, con questo compito, gettò la spugna. Secondo i dati riportati da Carlo Cottarelli nel sul libro “La lista della spesa” (2015) edito da Feltrinelli, l’indennità lorda dei deputati italiani sarebbe più alta rispetto a quella percepita da inglesi, tedeschi e francesi. Tuttavia vanno considerate anche le imposte e le spese di mandato, che in Italia comprendono anche il compenso dei collaboratori parlamentari (mentre in altri paesi i collaboratori sono assunti dal parlamento). Più lineare è invece il confronto sul numero dei parlamentari: in Italia 945, più i senatori a vita (64 mila residenti per ogni parlamentare), 650 in Regno Unito (senza tener conto della camera dei Lord, per un rapporto 1 a quasi 102 mila), 709 in Germania (Bundesrat escluso, 1 parlamentare ogni 117 mila abitanti), 616 in Spagna (1 a quasi 76 mila), 918 in Francia (1 ogni 72 mila e 672 residenti). Il dato italiano appare dunque il più alto tra i paesi occidentali più simili, sia a livello assoluto che pro capite. Secondo la riforma proposta dalla maggioranza parlamentare, volta a ridurre a 600 i parlamentari , diventeremo più virtuosi rispetto a Francia e Spagna, mentre rimarremo dietro a Regno Unito e Germania. Altra questione è il trattamento salariale dei dipendenti del Parlamento: sempre secondo Cottarelli, la retribuzione media lorda dei dipendenti della Camera è di circa 188 mila euro, contro ad esempio i 106 mila euro della Banca d’Italia. Per quanto riguarda il Quirinale, un paragone utile potrebbe essere quello con l’Eliseo francese (che ha probabilmente compiti esecutivi più impegnativi rispetto alla presidenza della Repubblica italiana). L’Eliseo nel 2017 è costato alle casse francesi attorno ai 100 milioni di euro, mentre nello stesso anno al Quirinale le spese correnti erano pari a 141 milioni di euro, al netto di 95 milioni destinati alle pensioni degli ex dipendenti (non incluse nei dati dell’Eliseo): un valore più elevato ma in calo rispetto agli anni precedenti. Infine un rapporto della Camera mostra come tutti i paesi analizzati includono un finanziamento minimo pubblico ai partiti, inclusi gli Stati Uniti. In questo ambito, quindi, l’Italia spende meno degli altri.
Conclusione
Dal quadro descritto emerge quindi come nel nostro paese gli sprechi in termini di costi della politica siano in parte stati aggrediti nelle legislature precedenti e in quella corrente. Su alcuni fronti, il lavoro è ancora in corso, con qualche retromarcia. Bisogna però tenere a mente come il gettito da queste misure non sia paragonabile ai fondi generalmente necessari per finanziare le politiche economiche della legge di bilancio attualmente in discussione.
Se dal punto di vista quantitativo gli sprechi da tagliare sono diminuiti, è probabile che il vero “costo” della politica sia però di natura qualitativa. Il livello di efficienza e qualità del personale della nostra classe dirigente e pubblica amministrazione è preoccupante rispetto al passato e rispetto agli altri paesi europei, almeno sulla base degli indicatori disponibili. Per citarne alcuni sul nostro Parlamento, la percentuale di laureati sul totale è diminuita di circa 20 punti percentuali dall’alba della Repubblica, nonostante l’aumento complessivo dei laureati. La domanda rilevante da porsi, quindi, potrebbe essere non solo “dove tagliare”, ma soprattutto “come migliorare” la qualità della spesa per la nostra politica. Ne gioverebbe la politica stessa, e il Paese intero.