Giuseppe Conte e Sergio Mattarella (foto LaPresse)

C'è un triangolo tra Conte, Colle e il Pd per mettere il M5s nelle mani del tonno

Valerio Valentini

La trasformazione del premier in una figura politica sposta il baricentro del grillismo da Casaleggio al Parlamento

Roma. Col tono divertito di chi sa di toccare una dolente nota, nell’assemblea dei parlamentari grillini di giovedì scorso che ha avviato la trattativa col Pd, Federico D’Incà è tornato sulla metafora del tonno. “La scatoletta che volevamo aprire è quella in cui ora siamo dentro, e dobbiamo prenderne atto. Siamo il tonno”, ha scherzato, ma fino a un certo punto, il questore della Camera, uno dei pontieri più operosi, nel tessere la tela della maggioranza giallorosso. “Salvini aveva preparato la mattanza, era pronto a ucciderci. Poi un tonno più grande degli altri, che si chiama Matteo Renzi, ha aperto uno squarcio nella rete, indicandoci il varco per sfuggire al rais. Ebbene: perché dovremmo rinunciare a metterci in salvo?”. E forse il paragone era perfino troppo arguto, per indicare l’ansia con cui il corpaccione parlamentare del M5s ha reagito all’imboscata agostana della Lega. Ma gli applausi con cui il discorso veniva accolto dimostravano che proprio la volontà di sopravvivenza del pesce nella rete è quella che Salvini ha sottovalutato, nei suoi deliri agostani. E del resto è stato lo spirito di autoconservazione del tonno a condizionare anche le mosse di Luigi Di Maio.

 

 

  

Il capo politico del M5s ha tentennato non poco, prima di stringere la mano a Nicola Zingaretti, tentato com’è stato, per giorni, dall’idea di tornare tra le braccia di Salvini. “La Lega mi ha offerto di fare il premier”, ha rivelato ieri Di Maio al Quirinale, come a voler esibire il suo sprezzo di potere e poltrone. “Ma in realtà fino a martedì pomeriggio ha tenuto aperti i contatti con noi”, confessa Gian Marco Centinaio. Quasi che in fondo Di Maio presentisse il timore di finire non solo oscurato da Giuseppe Conte (quel nome che Giggino ha pure imposto al Nazareno, nella speranza – rimasta intatta fino a domenica pomeriggio – che fosse il Pd a bruciarlo), ma anche marginalizzato in un governo che si prospetta istituzionale molto più di quanto non si dica, e con tutti i ministeri economici in mano al Pd. Non a caso ieri sera, nello staff di Di Maio, s’è diffusa la convinzione che neppure per un ruolo da ministro della Difesa, il suo profilo verrebbe ritenuto affidabile dai consiglieri del Quirinale, dove si propende inoltre – altra umiliazione – per una sola casella di vicepremier da assegnare o a Dario Franceschini o ad Andrea Orlando.

 

 

E tuttavia, se alla fine Di Maio i ponti con la Lega li ha tagliati definitivamente, lo ha fatto proprio perché ha capito che, su un eventuale ritorno sulla via del Carroccio, il gruppo parlamentare non lo avrebbe seguito. “Il mandato dell’assemblea è stato chiaro, e non lo si può smentire per una questione di interessi personali”, diceva ieri nella buvette di Montecitorio Gianluca Vacca, sottosegretario alla Cultura del M5s. E nel frattempo al piano di sopra, mentre salutava quasi con deferenza Paolo Gentiloni (“Un vero signore”), Marta Grande, presidente della commissione Esteri, spiegava che la volontà dei gruppi parlamentari peserà anche dopo l’avvio del governo giallorosso. “Perché quando si chiuderà la fase della trattativa, si aprirà quella della discussione interna”, diceva la deputata laziale. “Bisogna creare una segreteria allargata che garantisca collegialità e trasparenza nelle decisioni, che non possono essere prese in riunioni dove viene convocata gente con incarichi vari non si sa a che titolo”.

 

Il riferimento è ai vertici metà casaleggeschi e metà grillini di questi giorni, da cui è partorita anche l’intempestiva decisione di indire il voto su Rousseau per benedire il nuovo governo. Col rischio, però, di ucciderlo prima ancora che nasca. “Ma no, tutto dipende da come poniamo la domanda”, spiega Marco Rizzone, con furbesca laconicità. “Se Conte avrà il mandato per guidare un governo con maggioranza M5s e Pd voterò la fiducia”, conferma il senatore Enzo Presutto. E con lui sono decine i parlamentari del M5s a palesare una certa insofferenza per la subordinazione delle scelte del gruppo al responso di una piattaforma di proprietà di un privato cittadino. Perché, certo, va bene la democrazia diretta, ma “gli elettori – come dice il deputato sardo Luciano Cadeddu – il 4 marzo 2018 ci hanno dato la delega per scegliere nei momenti decisivi, non per fare gli schiaccia-bottoni”. E non a caso anche Conte ieri ha preteso delle rassicurazioni sul fatto che la consultazione online sarà solo una formalità. E insomma pare chiaro come a finire parlamentarizzato non sia stato solo l’esito di una crisi che Salvini voleva gestire dalle spiagge, ma anche il confuso e un po’ posticcio tentativo del M5s di farsi partito che risponde alle logiche più vetuste della politica del Palazzo, compresa quella che prescrive di allearti perfino col tuo peggior nemico, pur di non soccombere. E’ la logica del tonno, in fondo: quella di sfuggire alla rete.

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