Il nemico dell'autonomia è stato Salvini
L’opposizione al governo di Zaia e Fontana si intoppa sulla grande rimozione
C’è una evidente rimozione – un po’ furba e un po’ patetica, come tutte le rimozioni – nelle accuse con cui i governatori leghisti hanno preso ad accusare il governo appena insediato della scarsa attenzione riservata all’autonomia. Certo, la composizione dell’esecutivo e forse anche alcune delle prime uscite pubbliche dei ministri hanno alimentato un certo timore nei ceti produttivi del nord. E però, quello che Attilio Fontana e Luca Zaia lamentano è “uno stop”, “un rallentamento” sulla questione del regionalismo differenziato, come se di questo stop, di questo rallentamento, potesse essere accusato il nuovo governo. I presidenti di Lombardia e Veneto omettono di dire – eccola, la rimozione – che la paralisi sull’autonomia c’era già nell’èra gialloverde, quando a dirigere gli Affari regionali era un ministro leghista e veneto come Erika Stefani. La quale, pur lavorando sodo, s’è scontrata fin dall’inizio del suo mandato coi veti e le lungaggini del resto dell’esecutivo. Colpa dei ministri grillini? Non del tutto, se è vero – com’è vero – che lo stesso Matteo Salvini non ha mai imposto una reale accelerazione sul tema, come ha invece preteso sulla questione dei migranti (dove non temeva ripercussioni nel consenso al sud). E così per un anno e più Zaia e Fontana si lamentavano, Giancarlo Giorgetti additava ultimatum, e Salvini – che pure nel 2018 prometteva: “Se andremo al governo faremo l’autonomia in due settimane” – concordava con Luigi Di Maio tempi più lunghi e convergenze più ampie. Stesso discorso, poi, vale anche per i contenuti dell’intesa che i governatori dovranno firmare. Adesso protestano contro “lo svuotamento dell’autonomia”, minacciano di rigettare un testo dove non ci sia, ad esempio, la regionalizzazione della scuola. Ebbene, pur guidando anche il ministero dell’Istruzione, la Lega aveva già di fatto abbandonato qualsiasi proposito di regionalizzare la scuola, al punto che l’intesa preparata per Zaia a luglio prevedeva null’altro che questo: che la regione potesse estendere da cinque a sette anni il periodo minimo di permanenza obbligatoria dei nuovi insegnanti assunti in Veneto, prima che questi potessero chiedere il trasferimento e cercare cattedre altrove.