Hanno affondato il Capitano
Altro che persecuzione giudiziaria. Sull’immigrazione Salvini ha sfidato lo stato di diritto ma ne è uscito con le ossa rotte. Ecco come i giudici hanno fatto a pezzi i decreti sicurezza
La politica migratoria del pugno di ferro inaugurata da Matteo Salvini ha ormai più di un anno. Era il 4 ottobre 2018 quando la retorica dei “porti chiusi” è culminata nel primo dei due decreti sicurezza, diventati i feticci del “prima gli italiani” di marca leghista. Eppure, volendo fare un bilancio, in oltre un anno l’immigrazione salvinianamente intesa è passata dall’essere il grimaldello per entrare nei cuori del popolo sovranista, a qualche tweet sporadico, a storia di contorno riassumibile in numeri – per lo più inventati – da esibire a denti stretti in caso di mancanza di altri argomenti durante i talk-show. A certificare come l’immigrazione sia uscita (per ora) dai radar degli italiani è un recente sondaggio Ipsos: nel 2018, dice l’istituto di Nando Pagnoncelli, gli italiani preoccupati dagli sbarchi dei migranti erano il 45 per cento; oggi sono appena il 28.
Secondo i giudici, ci fu “la precisa volontà del ministero dell’Interno” di privare della libertà personale le persone a bordo della Diciotti
Fin qui il discorso politico. Poi però c’è quello giudiziario e, tenendo da parte i tweet, posando per un momento i mojito, ci si accorge che i due decreti sicurezza hanno trovato un ostacolo fino a oggi insormontabile per Salvini: quello dello stato di diritto. Sono tante le sentenze emesse in oltre un anno dai tribunali civili e da quelli amministrativi che hanno smontato, pezzo dopo pezzo, i due decreti sicurezza. “Se qualche giudice vuole fare politica e cambiare le leggi per aiutare gli immigrati, lasci il tribunale e si candidi con la sinistra”, aveva sbottato Salvini lo scorso maggio, lamentando un pregiudizio nei confronti di chi, come dice lui, vuole solamente “difendere i confini”. Sebbene nell’èra sovranista la legge – nonché coloro che devono farla rispettare – è considerata alla stregua della mera, fastidiosa eventualità, nei fatti i due decreti sono ormai inapplicabili. E a scoperchiare queste scatole vuote non sono stati né Soros né le ong.
Dalla Diciotti alla Gregoretti
Partiamo dalle origini, prima ancora che i decreti sicurezza entrassero in vigore. Il primo atto dello scontro tra Salvini e la magistratura sulla “leggenda dei porti chiusi” è il famigerato “caso Diciotti”. Il 16 agosto 2018 la nave della Guardia costiera salva 190 persone in acque internazionali al largo di Malta. Tra loro ci sono 10 donne e 37 minori. L’ordine di dirigere la nave verso il porto di Catania arriva solo il 20 agosto, quello per lo sbarco addirittura il 26. L’allora ministro dell’Interno si appella (lo fa in una caldissima diretta su Facebook) all’articolo 52 della Costituzione per legittimare il divieto imposto alla nave militare di attraccare in Italia (è il primo caso nella storia della nostra Repubblica): “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino – afferma Salvini – Per qualcuno no. Per qualcuno un cittadino che difende la patria deve finire in galera. Io non cambio di un centimetro la mia posizione. Se sono stato sequestratore una volta ritenetemi sequestratore anche per i mesi a venire. Non cambio assolutamente idea perché voglio salvare vite, presidiare i confini e difendere il mio paese”. E’ il Tribunale dei ministri a riportare Salvini con i piedi per terra: c’è stata “la precisa volontà del ministero dell’Interno” di privare della libertà personale le persone a bordo della Diciotti, affermano i giudici nella richiesta di autorizzazione a procedere inoltrata al Senato. Di più: la catena decisionale che ha portato al blocco della nave non è chiara, perché non esiste nessun atto scritto che dica chi abbia dato l’ordine di fare cosa. Per il Tribunale dei ministri vale quanto appurato dalla procura di Agrigento che aveva avviato le indagini: il ministero dell’Interno, l’unico competente a dare l’autorizzazione allo sbarco, ha illegittimamente impedito il completamento dell’operazione di salvataggio impedendo ai migranti di scendere dalla nave.
Sulla protezione umanitaria, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno sancito che il decreto sicurezza non è retroattivo
Altro punto: quando Salvini parla genericamente di “clandestini” trasportati dalle ong si tratta di una bufala. Sempre. E’ impossibile stabilire se un migrante-naufrago possa godere o meno del diritto di asilo mentre si trova ancora a bordo della nave che lo ha salvato. Secondo l’articolo 13 del Regolamento di Dublino, “quando è accertato […] che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno stato membro, lo stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale”. Un esame che va compiuto a terra, spiega il regolamento. Nel caso della Diciotti, si trattava soprattutto di eritrei che avrebbero avuto pieno diritto a chiedere la protezione umanitaria. Salvini si oppone a un regolamento iniquo, quello di Dublino, perché scarica solo sull’Italia la responsabilità della gestione dei migranti appena sbarcati. Ma invece di impegnarsi a cambiarlo – in un anno si è presentato a Bruxelles solo una volta per le riunioni con i suoi colleghi europei – decide unilateralmente di non rispettare le leggi. Così, la vicenda non può che chiudersi solo per via politica, col voto in Senato dello scorso marzo che impedisce di fare chiarezza.
Resta da vedere come andrà a finire il caso gemello della Diciotti, quello che riguarda la Gregoretti, altra nave della Guardia costiera tenuta al largo delle coste italiane dal ministro Salvini. Proprio ieri, il Tribunale dei ministri di Catania, rigettando la richiesta di archiviazione avanzata dal pm Carmelo Zuccaro, ha presentato al Parlamento una nuova richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini, ipotizzando il reato di sequestro di persona. I fatti risalgono al luglio scorso, quando 131 migranti furono costretti a bordo della nave militare per giorni. Secondo il Testo Unico sull’immigrazione, articolo 10 ter, “lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna e giunto in territorio nazionale, a seguito di operazioni di salvataggio, è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi […]” dove “sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico”. Per i giudici, i “porti chiusi” previsti dal decreto sicurezza bis sono inapplicabili e non scalfiscono una legge dello stato italiano, cogente e mai modificata dai decreti di Salvini.
Respingimenti all’italiana: il caso Nivin
Dopo aver giocato con il diritto per oltre un anno, ora l’Italia rischia grosso. Un’associazione di avvocati e giornalisti, la Global Legal Action Network, ha annunciato ieri che presenterà un ricorso al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite sul caso del respingimento di 93 migranti recuperati in acque libiche da una nave mercantile, la Nivin, battente bandiera panamense. Il 7 novembre del 2018, secondo quanto appurato dalle indagini compiute da Charles Heller della Forensic Oceanography, ramo della Forensic Architecture Agency della Goldsmiths University of London, l’Italia ha assunto il coordinamento delle operazioni di salvataggio dei migranti per conto della autorità libiche. A testimoniarlo è un dispaccio inviato dal Comando generale delle Capitanerie di porto di Roma al comandante del mercantile: “Vi preghiamo di contattare urgentemente la Guardia costiera libica attraverso questo centro di ricerca e soccorso ai seguenti numeri di telefono”. Quei numeri di telefono indicati nel dispaccio erano italiani. I 93 allora sono stati condotti in Libia – un porto non sicuro, per l’Onu – e rinchiusi nei centri di detenzione. Un respingimento in piena regola, secondo Heller, per di più delegato dall’Italia a una nave privata, in aperta violazione del principio di non respingimento sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra.
Nessun legame tra ong e trafficanti
Altro salto all’indietro nel tempo: 15 maggio 2019, quando il governo gialloverde è in piena crisi di identità, con il M5s e la Lega già in clima di campagna elettorale. La nave dell’ong Sea Watch salva 65 migranti (tra cui sette bambini, alcuni di pochi mesi) in acque internazionali al largo della Libia. La nave resta in mare per cinque giorni senza un porto dove attraccare. Il 20 maggio il pm di Agrigento, Luigi Patronaggio, decide di procedere al sequestro della nave ipotizzando il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a carico del comandate. Per questo, il procuratore autorizza l’approdo. Salvini però si infuria, teme che si tratti di un espediente usato dalla procura per fare scendere i migranti e sabotare i suoi “porti chiusi”. E così lo attacca: “Se vuole fare politica si candidi”, ripete fino allo sfinimento. Ma siamo al paradosso: il ministro è arrabbiato perché un pm vuole appurare se una ong ha compiuto o meno il reato che lo stesso ministro ritiene che sia stato commesso. Senza contare che, prima di maggio, lo stesso Viminale aveva emanato tre direttive con le quali si metteva in guardia sulle presunte attività illegali delle ong. Per la cronaca: negli stessi giorni la procura di Catania, su richiesta del cosiddetto “pm anti ong” Carmelo Zuccaro, chiede l’archiviazione delle indagini sulle presunte connessioni tra l’ong Proactiva Open Arms e i trafficanti di esseri umani. A giugno 2018, anche la procura di Palermo aveva chiesto l’archiviazione per altre due indagini analoghe. Infine, a Salvini arriva la stoccata di Luigi Di Maio, suo alleato di governo: “Salvini si legga le leggi, quando c’è un sequestro è obbligatorio far scendere le persone”. Giù il sipario.
La lezione di Mattarella
Il 15 giugno è il giorno dell’entrata in vigore del decreto sicurezza bis, quello che esplicitamente prova a dettare le regole per la chiusura dei porti. E’ la legge numero 53, recante “disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”. Nel primo dei 18 articoli si prevede che il ministero dell’Interno “può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale” per ragioni di sicurezza, ovvero quando si sospetta che sia stato violato il Testo Unico sull’immigrazione. In tal caso si ipotizza il reato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Qualora sia conclamata la violazione del divieto di ingresso, si prevedono multe da 150 mila euro fino a un milione di euro per il comandante della nave, che rischia anche l’arresto in flagranza, oltre al sequestro della nave. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella firma il decreto ma evidenzia anche delle “rilevanti perplessità” in base alle quali chiede al Parlamento di migliorare il testo di legge. Sulle multe, dice il Colle, “non appare ragionevole – ai fini della sicurezza dei nostri cittadini e della certezza del diritto affidare alla discrezionalità di un atto amministrativo la valutazione di un comportamento che conduce a sanzioni di tale gravità”. Soprattutto, dice Mattarella, il decreto è inutile perché non può intaccare l’obbligo dei salvataggi in mare che – va ricordato – si completano al momento dello sbarco nel porto sicuro più vicino. Questo obbligo resta valido proprio in base all’articolo 1 del decreto, dove si spiega che la limitazione o il divieto di ingresso possono essere disposti solo “nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia”. Significa che nel rispetto dell’articolo 1 – che prevede l’obbligo di salvare naufraghi e di condurli al sicuro secondo quanto previsto dalle convenzioni internazionali – sarà estremamente difficile applicare quanto previsto dall’articolo 2 – quello delle sanzioni a carico delle navi che fanno ingresso nelle acque territoriali – semplicemente perché le leggi internazionali prevalgono su quelle nazionali (lo dice la Costituzione all’articolo 10).
Salvare i migranti è un dovere
Sulla Gregoretti, il Tribunale dei ministri ha presentato una nuova richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini
Il 2 luglio, il gip di Agrigento Alessandra Vella decide di non convalidare l’arresto di Carola Rackete, comandante della nave umanitaria Sea Watch 3. Nei giorni precedenti, Rackete aveva violato il blocco imposto dalle motovedette della Guardia di Finanza, come previsto dal decreto sicurezza bis, e considerate le difficilissime condizioni sanitarie, con 42 migranti a bordo, aveva attraccato a Lampedusa. Il gip ravvisa “l’insussistenza del reato di resistenza e violenza nei confronti della motovedetta della Guardia di Finanza ‘Vedetta V. 808’”. Salvini è infuriato contro il gesto di quella che definisce una “viziata comunista tedesca”. Ma lo è ancor di più perché il giudice demolisce l’intera impalcatura giuridica del decreto. Nell’ordinanza si scrive a chiare lettere che recuperare i naufraghi e portarli in un porto sicuro sono entrambi doveri imposti dall’ordinamento sovranazionale e internazionale. Altro che decreti sicurezza: se la Sea Watch non l’avesse fatto avrebbe contravvenuto a un obbligo previsto dalle leggi internazionali. A dirlo, ricorda il giudice, sono le leggi sottoscritte dall’Italia: l’articolo 98 della Unclos (ratificata con la legge del 2 dicembre 1994, n. 689) che “impone al comandante di una nave di prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare nonché di recarsi il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà qualora venga informato che tali persone abbiano bisogno di assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento”; la Solas del 1974 (resa esecutiva in Italia con la legge del 23 maggio 1980, n. 313); la Convenzione Sar del 1979 (legge del 3 aprile 1989, n. 47). Il decreto sicurezza bis non si può applicare, spiega il gip: “Il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello stato costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio”.
Il respingimento di Open Arms
Stavolta tocca a Open Arms, che è al limite delle acque territoriali italiane da 13 giorni (in applicazione del decreto sicurezza bis) e che ha a bordo 147 migranti, 32 dei quali minorenni. L’ong fa ricorso al Tribunale per i minori di Palermo, che risponde così: “Come è ben noto, le convenzioni internazionali a cui l’Italia aderisce e soprattutto l’art. 19 co. 1 Bis D. L.vo. 286/98 come integrato dall’articolo 3 della legge 47/17, impongono il divieto di respingimento alla frontiera o di espulsione dei minori stranieri non accompagnati, riconoscendo loro invece il diritto a essere accolti in strutture idonee, nonché di aver nominato un tutore e di ottenere il permesso di soggiorno”. E continua: “Evidentemente tutti questi diritti vengono elusi a causa della permanenza dei suddetti a bordo della nave Open Arms, nella condizione di disagio fisico e psichico descritta dal medico di bordo che ha riferito della presenza di minori con ustioni, difficoltà di deambulazione, con traumi psichici gravissimi in conseguenza alle terribili violenze subite presso i campi di detenzione libici”. Quindi, conclude il Tribunale, ci si trova “in una situazione che equivale, in punto di fatto, a un respingimento o diniego di ingresso a un valico di frontiera”.
La sospensione del Tar
Siamo al 14 agosto e stavolta è il Tribunale amministrativo del Lazio a svuotare di significato giuridico il decreto sicurezza bis. Il Tar sospende l’applicazione del provvedimento che impediva a Open Arms il transito nelle acque territoriali. I giudici ravvisano, da parte del ministero dell’Interno, un “eccesso di potere per travisamento dei fatti” e una “violazione delle norme del diritto internazionale in materia di soccorso”. Non solo: nel definire il passaggio della nave umanitaria “non inoffensivo”, il Viminale arriva a una conclusione “contraddittoria”, in quanto – dice il Tar – l’imbarcazione “era in distress, cioè in una situazione di evidente difficoltà”. Pertanto, il presidente della prima sezione del tribunale, Leonardo Pasanisi, sospende l’applicazione del decreto e stabilisce che Open Arms deve attraccare affinché le autorità possano “prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse”. Salvini è furibondo: “C’è un disegno per tornare indietro e riaprire i porti. Nelle prossime ore firmerò il mio no”, annuncia il ministro dell’Interno ventilando l’ipotesi di un ricorso al Consiglio di stato. Peccato che sia impossibile: non esiste possibilità di appello per le decisioni di urgenza prese dal Tar.
Nuovo round al Tribunale dei ministri
Su Sea Watch 3 il giudice dice che recuperare i naufraghi e portarli in un porto sicuro sono doveri imposti dall’ordinamento sovranazionale
“L’autorità pubblica aveva consapevolezza della situazione d’urgenza e il dovere di porvi fine ordinando lo sbarco delle persone”, aveva scritto il pm di Agrigento, Luigi Patronaggio, negli atti dell’inchiesta sul caso Open Arms. E così, lo scorso 29 novembre, anche il procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, ha deciso di sottoporre le carte al Tribunale dei ministri chiedendo che si vada avanti nell’inchiesta contro Salvini. I reati ipotizzati sono l’omissione di atti d’ufficio e il sequestro di persona. Rispetto al caso della Diciotti, stavolta contro l’ex ministro ci sono prove ulteriori: l’ispezione sanitaria a bordo della nave effettuata dallo stesso Patronaggio (che aveva appurato le condizioni “estreme” cui erano costretti i migranti a bordo) e il provvedimento di sospensione del Tar del Lazio. Proprio la situazione igienica a bordo, oltre alle condizioni di salute dei naufraghi, è la prova – secondo la procura – che l’allora ministro dell’Interno ha rifiutato deliberatamente di adottare gli atti necessari al completamento delle operazioni di salvataggio. Entro 90 giorni si conoscerà l’esito della valutazione dei giudici estratti a sorte (Caterina Greco, Lucia Fontana e Maria Cirrincione). Nel caso in cui il Tribunale dovesse procedere al via libera, si inoltrerà una richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini. L’ultima parola spetterà alla politica, ancora una volta.
La protezione umanitaria
C’è poi un altro capitolo, oltre a quello dei porti chiusi, smontato punto per punto dalle sentenze dei tribunali. Si tratta della protezione umanitaria, la cui concessione ai richiedenti asilo è stata di fatto ridotta all’osso dal primo decreto sicurezza. Si è passati – secondo i dati dell’Ispi – da una soglia di diniego delle richieste pari al 60 per cento registrata nel 2017, a quella dell’80 per cento di oggi. La protezione umanitaria è uno status concesso dalla questura nei casi in cui non ci siano i presupposti per concordare la protezione internazionale o lo status di rifugiato, ma sussistano comunque “seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano”. Le sentenze che hanno smontato il primo decreto sicurezza sono state diverse. Il tribunale di Firenze (a marzo) e quello di Bologna (a maggio) hanno sancito l’inapplicabilità dell’articolo 13 (il più contestato) del primo decreto sicurezza, stabilendo che il provvedimento non impedisce ai richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe del comune. “Ogni richiedente asilo, una volta presentata la domanda di protezione internazionale deve intendersi comunque regolarmente soggiornante”, hanno deciso i giudici. Il mese scorso è arrivato un altro duro colpo per l’ex ministro dell’Interno. Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno sancito che il decreto sicurezza non è retroattivo (accogliendo così le conclusioni analoghe contenute in una sentenza dello scorso luglio emessa del Tar della Basilicata). Non solo le limitazioni alla concessione della protezione umanitaria non possono essere applicate alle domande presentate prima del 4 ottobre 2019, ma i giudici hanno anche affermato che lo status non può essere concesso considerando solamente il livello di inserimento sociale ed economico del migrante nella nostra società. E’ necessario invece tenere conto anche del rischio di una violazione dei diritti fondamentali in caso di rientro del migrante nel paese di origine. “Il decreto 113/2018 ha eliminato una clausola di salvaguardia dell’intero sistema (anche) della protezione internazionale, senza preoccuparsi né dell’esistenza di precisi obblighi costituzionali e internazionali sottesi all’art. 5, co. 6 del Testo Unico sull’immigrazione, né degli effetti che l’abrogazione del permesso di soggiorno avrebbe provocato – dice l’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione – Tra essi possono annoverarsi l’abnorme percentuale di rigetti delle domande di protezione internazionale, l’aumento vertiginoso del contenzioso giudiziale con danni enormi alle finanze pubbliche, la creazione di una moltitudine di irregolari, esposti a sfruttamento lavorativo e che favoriscono il lavoro nero, con ulteriori danni all’erario pubblico”. Un danno che non finisce qui, perché dopo la sentenza della Cassazione le commissioni territoriali, cioè quelle che valutano le singole domande di asilo, dovranno ora tornare ad analizzare migliaia di casi che dal 5 ottobre 2018 si erano astenute dal valutare a causa della confusione generata dal provvedimento di Salvini.
Tutto cambia perché nulla cambi
Da un punto di vista puramente giuridico, il bilancio dei risultati raggiunti dai decreti sicurezza non poteva essere più desolante. In oltre un anno di polemiche, atti legislativi e accuse rivolte ai magistrati, i decreti di Salvini sui migranti si risolvono nel più gattopardesco degli epiloghi: “Tutto cambia perché nulla cambi”. E così, i “porti chiusi” non sono mai stati chiusi, i legami tra ong e trafficanti di uomini non sono mai stati dimostrati, i naufraghi devono essere salvati, i richiedenti asilo possono ancora iscriversi all’anagrafe, l’abolizione della protezione umanitaria non può essere retroattiva. Non resta che bere altri mojito, in attesa del prossimo provvedimento spot.