Quando il Guardasigilli Bonafede, per difendersi in Senato dalle mozioni di sfiducia, ha esordito prendendosela con “le allusioni e le illazioni” emerse nel dibattito politico e mediatico si è compreso come si fosse davanti a un evento eccezionale, tanto tragico quanto comico: per respingere le accuse di non aver nominato il pm Nino Di Matteo al vertice del Dap su spinta di presunte pressioni mafiose, il ministro ha dovuto sconfessare quella cultura del sospetto su cui il movimento di cui fa parte, con la complicità dei teorici del metodo Travaglio, ha costruito le sue fortune, sventolando le manette di fronte a ogni avviso di garanzia, chiedendo dimissioni sulla base di semplici congetture, rappresentando la classe politica come un ammasso di corrotti e alimentando teorie complottiste su indicibili trattative tra lo Stato e le mafie.
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