Di Maio nello stretto
Cancelleri, fedelissimo di Giggino, dice sì al ponte di Messina. E nel M5s parte il rodeo. Così il caos grillino logora Conte
Roma. Per uno che come massimo orgoglio infrastrutturale rivendicava la costruzione di una trazzera in quel di Caltavuturo, quattromila abitanti tra Enna e Palermo, deve produrre un estasi indicibile invocare la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. E così mercoledì sera Giancarlo Cancelleri da Caltanissetta, viceministro dei Trasporti del M5s, ha detto che sì, quel ponte s’ha da fare. Rilanciando, con parole inequivocabili, quell’apertura che già Giuseppe Conte aveva fatto, arrivando in scia a Dario Franceschini, e questi a Matteo Renzi.
Ovviamente sarebbe bastato molto meno, per provocare il trambusto all’interno de M5s. E infatti di buon mattino, mentre il pugliese Paolo Lattanzio sfotteva il compagno grillino Cancelleri parlando di “pesce d’aprile”, Davide Serritella, deputato piemontese della commissione Trasporti, No Tav irredento, già si sbilanciava a dire che no, così non stava bene: “Un’uscita sbagliata nel merito e nel metodo”. E Giovanni Vianello, deputato tarantino della commissione Ambiente, accanito sostenitore della chiusura dell’Ilva, scuoteva il capo: “Cancelleri ha aperto al ponte? Come apre, così richiude”. E infatti bastavano poche ore, perché le due commissioni uscissero con un comunicato che rigettava risolutamente l’azzardo contiano. Tutto sbagliato, insomma, tutto da rifare.
Eppure, se l’eccesso di entusiasmo di Cancelleri è stato improvvido, non è certo stata casuale. Lo ha capito anche il ministro Paola De Micheli che quasi sempre, quando il grillino siciliano s’incaponisce su qualche puntiglio, lo fa perché a suggerirglielo è Luigi Di Maio. Che al suo prode amico ha garantito totale protezione: quando è nato il governo giallorosso, lo ha prelevato direttamente dall’Ars, in barba ai sacri regolamenti grillini, per piazzarlo a Porta Pia a presidiare sul garbuglio della revoca di Autostrada, che da allora s’è ingarbugliata ancor più. “E forse – raccontano i senatori grillini – è proprio a Cancelleri che Luigi pensa come uno dei suoi luogotenenti nel nuovo direttorio del M5s”. Ma non è solo una questione elettorale. C’è che Di Maio, e più di lui Cancelleri, lo sentono eccome quel traffico di passi per i corridoi dei vari ministeri, quel chiacchiericcio tutto romano che s’è gonfiato in queste settimane di grandi dibattiti sulle opere da sbloccare, sui regolamenti da semplificare, sui cantieri da aprire. Sanno bene che il successo del Ponte Morandi è, evidentemente, anche un successo di Salini, cioè Webuild, che è ovviamente anche l’unica indiziata, in sintonia con Cdp, per la costruzione del collegamento tra Sicilia e Calabria. E la paura di Di Maio è appunto quella di restare indietro, in questa corsa all’accreditamento presso quel mondo confindustriale con cui d’altronde anche Conte sta cercando di riallacciare i legami: e se il premier ha atteso giorni prima di replicare alle sferzate di Carlo Bonomi, Di Maio ha evitato del tutto. Segnali, evidentemente, di un Di Maio che nn vuole restare con in mano quella che certi suoi confidenti chiamano la “bad company” del M5s, ovvero quel guazzabuglio di ideologismo decrescitista e ribellismo a cui invece guarda con ambizione Alessandro Di Battista. Solo che nessuno sfugge alla sua natura: e così Di Maio ora si ritrova ostaggio dell’estremismo barricadero di un partito fondato sul “No”.
E non è un caso che mentre uno dei suoi scudieri, Cancelleri, benediva il ponte, l’altro suo fedelissimo, quel Manlio Di Stefano sottosegretario agli Esteri, lo definiva, con francesismo ostentato, “una cazzata”. Nel mezzo, una giornata di passione in cui gli europarlamentari duri e puri Ignazio Corrao, Piernicola Pedicini e Rosa D’Amato venivano sospesi per insubordinazione in quel di Bruxelles, e Barbara Lezzi s’affrettava a dire che questo era un modo per “isolare” Dibba. Il che ovviamente avrà delle ripercussioni, specie al Senato, quando si tornerà a parlare di Fca, di grandi opere e di Ilva. Per non dire, ovviamente, del Mes e della revoca ad Aspi. Un problema per Di Maio, si dirà, che non sa controllare i suoi. Ma un problema, a ben vedere, anche per Conte, che apre un tavolo di negoziazione con le opposizioni e le parti sociali senza potere garantire neppure per quello che sarebbe il suo partito. L’ultima volta che ha invocato la concordia trasversale, il 21 maggio scorso, s’è ritrovato poi col vice capogruppo del M5s alla Camera che trasformava l’Aula di Montecitorio in un rodeo, facendo saltare in aria qualsiasi ipotesi di dialogo col centrodestra. Ché i ponti, quando si ha a che fare col grillismo, è sempre difficile costrurirli.