spazio okkupato
Parole di (s)conforto
L’eloquio forbito di Conte quasi rasserenava nella prima fase della pandemia. Ora rischia di irritare
Confesso che la lingua di Giuseppe Conte mi ipnotizza e mi affascina, al punto che mi è quasi impossibile scriverne senza riprodurne lo stile e la cadenza. Era dai tempi di Giovanni Spadolini che il parlar forbito non aveva tale cittadinanza nell’oratoria politica italiana, ma l’eloquio dell’attuale presidente del Consiglio è, se possibile, ancora più antico, ottocentesco, rigonfio di sfumature risorgimentali. La lettera in risposta a Riccardo Muti pubblicata dal Corriere della Sera è infarcita di espressioni che apparirebbero vecchiotte anche nell’inno di Mameli: “Accorato appello”, “alimento per lo spirito, nutrimento per l’anima”, “ho apposto la mia sottoscrizione”, “nella propria e nell’altrui leggenda”, “il comune destino di finitudine dell’essere umano”, “muta armonia”, “è con questo spirito, caro Maestro”, eccetera.
E’ nelle conferenze stampa, però, che lo stile di Giuseppe Conte si fa purissimo. Ascoltarlo parlare in diretta suscita in me un tale stupore da mitigare, quasi, la gravità degli annunci, le ondate di lutti e i sacrifici in arrivo. Il presidente del Consiglio sopperisce, infatti, a una quasi assoluta mancanza di intonazione espressiva – e direi, di emozione – mettendo in atto una doppia strategia sintattica e lessicale. La sua sintassi è elaborata, ma l’abbondanza di subordinate viene neutralizzata, piegata e resa scorrevole da uno spregiudicato ricorso alla ripetizione la cui funzione è non fare dimenticare a chi ascolta i soggetti e i complementi oggetto che, altrimenti, sprofonderebbero all’interno del discorso. Il lessico è mediamente piano, comprensibile, ricco di anglismi – “lockdown” su tutti – e di indicatori puntuali e ripetuti – “mi rendo perfettamente conto”, “il mio invito”, “non lo consentiremo” – ma è impreziosito da improvvise incursioni di termini arcaici, tecnici, aulici che rimarcano l’autorevolezza di chi parla.
Alla base dell’oratoria del presidente del Consiglio c’è sicuramente il gusto personale unito agli studi giuridici e a una certa leziosità da gentiluomo del sud, ma ci si sbaglierebbe a ridurre tutto a una questione di stile e vanità. Come i suoi predecessori, Conte è consapevole che in assenza di parole memorabili il discorso politico cade nel vuoto, non diventa pubblico, ma invece di ricorrere alla virulenza elementare degli slogan preferisce scegliere termini rassicuranti perché antichi, ma inusuali perché in disuso. E così avviene che lemmi che sembravano destinati all’oblio ritornino per qualche giorno a occupare il dibattito pubblico. L’ultimo caso eclatante è “ristoro” – da cui decreto “Ristori” – parola di cui non si aveva traccia da tempo immemore. Fino a una settimana fa faceva pensare a viandanti sudati, a bettole disperse sugli Appennini, tutt’al più al Posto Ristoro, il bar della stazione di Reggio Emilia infestato di tossici in cui è ambientato un magnifico e agghiacciante racconto di Pier Vittorio Tondelli.
Oggi è una parola che usano tutti, anche nei bar se non fossero deserti, come se fosse normale. Nessuno si chiede da dove sia saltata fuori. Ho immaginato l’esistenza di un giovane accademico della Crusca incaricato di scartabellare vecchi vocabolari alla ricerca delle espressioni più adatte, ma gli esperti di cose parlamentari concordano sul fatto che sia tutta farina del sacco del presidente. Ho immaginato Conte compulsare di notte a Palazzo Chigi il dizionario dei sinonimi e dei contrari per trovare il lemma perfetto: “indennizzo”, “risarcimento”, “aiuto”, “conforto”, “sollievo” e, appunto, “ristoro”! Ho ipotizzato perfino un’origine geografica: “Nell’età aragonese, e fino al primo Ottocento”, recita il vocabolario Treccani, “si chiamavano ristori i terreni del Tavoliere pugliese coltivati a cereali durante l’estate e assegnati, in ottobre, ai pastori transumanti dell’Abruzzo”. E in effetti, il presidente è nato a Volturara Appula, nel cuore del Tavoliere e della transumanza, ma sarebbe una spiegazione ingenerosa e in fin dei conti inutile. L’importante è l’effetto politico: è che da oggi intorno alla parola “ristoro” si consolideranno attese e speranze.
Nell’eloquio di Giuseppe Conte si misura la distanza rispetto alla stagione inaugurata da Berlusconi e interrotta con Salvini, passando per Renzi. Un cambio di passo linguistico rivendicato già un anno fa, prima dell’epidemia, nel discorso con cui Conte chiese e ottenne in Senato la fiducia per il suo secondo governo. All’opposizione che ridacchiava sentendo parole come “logomachia”, “latore”, “ferace”, “perspicuo” e “genetliaco”, Conte intimò: “Non abbiate paura delle parole”. Poi arrivò il contagio e le parole difficili non solo smisero di fare paura, per un po’ tranquillizzarono. Il presidente del Consiglio superiore di Sanità, professor Franco Locatelli, arrivò a pronunciare in tv il verbo “scotomizzare” senza che nessuno andasse a rincorrerlo con i forconi. Il problema è che più che di un cambio di passo e di una svolta culturale, l’efficacia dell’arte oratoria del presidente del Consiglio sia stata determinata dalla paura che costringeva la maggioranza degli italiani a un’ultima concessione di credito verso gli esperti. Se nella prima fase la competenza linguistica e scientifica ha rassicurato il paese, il rischio è che nella seconda possa farlo infuriare e ribaltarsi in rabbia e rifiuto.