Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Il disastro De Magistris come epifenomeno di una città afona

Paolo Macry

Il punto non è sull'imbarazzante operato del sindaco, ma su chi tra pochi mesi ne deciderà il successore: si può fare affidamento sull'opinione pubblica di Napoli?

Prendiamola alla lontana. Immaginiamo che per qualche improvviso problema di manutenzione a Milano venga chiuso al traffico corso Buenos Aires, o a Roma il Lungotevere, o a Parigi place Charles-de-Gaulle. Code inimmaginabili, ingorghi apocalittici. Poi immaginiamo che per mesi  e mesi nessuno faccia nulla, nessuna iniziativa degli amministratori, nessuna impresa chiamata a risolvere la cosa, nessun operaio messo a lavorare, niente di niente. Cosa succederebbe? Cittadinanza furibonda? Comitati di protesta? Cortei di commercianti? Scioperi? Disordini? Molotov? Saccheggi? Dimissioni del sindaco?

 

Ma torniamo alla realtà, cioè alla cronaca. Settembre 2020, a Napoli si scopre che la Galleria Vittoria ha problemi alla volta e viene chiusa al traffico. I disagi per la mobilità cittadina sono enormi. La galleria è il principale collegamento urbano tra est e ovest, è attraversata ogni giorno da un fiume di auto, i percorsi alternativi sono tortuosi e stretti. E però da allora – esattamente da otto mesi – non succede nulla. Il Comune si muove come un plantigrado, interviene la Procura, ispezioni, verifiche, sequestri, le solite storie. Ancora oggi, maggio 2021, la Galleria Vittoria resta transennata, abbandonata, deserta. Non c’è traccia di lavori in corso. Quanto al sindaco, è spensieratamente in trasferta nelle Calabrie, dove corre per la presidenza della regione. Ma la cosa davvero singolare, al di là dell’inefficienza conclamata dei pubblici poteri, è un’altra. E’ la reazione delle classi dirigenti, degli imprenditori, delle associazioni civiche, dei sindacati degli utenti, dei social, della gente comune. Ovvero la reazione della città. Non pervenuta. Inesistente. Tutti guardano, brontolano e tirano avanti. Tolleranza massima, pazienza sovrumana.

 

L’Apologo della Vittoria suggerisce considerazioni imbarazzanti non soltanto sul sindaco della bandana, su Luigi de Magistris. Sarebbe troppo facile. Il punto è l’opinione pubblica della città, ovvero quelle ottocentomila anime che decideranno tra pochi mesi quale sarà il successore di De Magistris. E la domanda scabrosa è la seguente: si può fare affidamento sull’opinione pubblica di una città come Napoli (o come Roma)?

 

Usualmente, sui giornali, si parla dell’offerta politica, i programmi elaborati dai partiti per la futura sindacatura, i candidati proposti all’elettorato. E (con qualche ragione) se ne dicono spesso peste e corna. Molto meno si parla della domanda politica. E cioè: cosa vorrebbero i cittadini? Cosa ritengono importante per loro e per la loro città? Cosa non sono più disposti a tollerare? E, prima ancora, fino a che punto sono interessati alla pubblica amministrazione? Una delle ragioni del precoce successo del liberalismo britannico fu la nascita, fin dal XVIII secolo, di un’opinione pubblica con forti attitudini critiche. Certo, non era il popolo, erano élite. Ma furono élite capaci di far sentire la propria voce, di mettere alla frusta i governanti, di agitare la bandiera della pubblica felicità. Ebbene, l’Apologo della Vittoria dice che in città come Napoli (o Roma) le cose – nel XXI secolo – non sono altrettanto edificanti. Dopotutto De Magistris venne eletto sindaco dall’opinione pubblica napoletana, dieci anni fa, sebbene non avesse altro pedigree che una discutibile carriera da pm e la sponsorizzazione di Michele Santoro. Un errore inconsapevole? Forse. Ma poi De Magistris, al termine di una sindacatura a dir poco inconsistente, fu rieletto. Da quella stessa opinione pubblica. Alla quale evidentemente erano piaciuti i servizi pubblici al collasso, il crollo della manutenzione, i conti in rosso, la giostra surreale degli assessori, il populismo sudamericano. Certo è che nel 2016 un napoletano su due rinunciò semplicemente ad andare a votare, cioè se ne lavò le mani, e la restante metà dette all’ex pm il 67 per cento dei suffragi. Un successone. Né si può dire che quei voti fossero il risultato di chissà quali beghe. Se pure l’avesse voluto, il sindaco non aveva avuto i soldi per fare clientelismo, non era un presidente di regione e la cassa era già piena di buchi. Né godeva di truppe cammellate. Tutt’al più aveva protetto qualche centro sociale, aveva fatto piccoli favori ai ristoranti di via Partenope e ai baretti di Chiaia. Però fu rieletto.

 

Misteri gloriosi. Enigmi della società disintermediata, come suol dirsi, della mancanza di organizzazioni politiche, di istituzioni culturali diffuse, di associazionismo civile. Ma enigmi preoccupanti. Quale sarà il prossimo sindaco di Napoli? Quanto conterà l’offerta politica, e cioè la qualità dei Manfredi, Fico, Amendola, Bassolino, Maresca, Clemente? E quanto conterà invece la domanda politica, e cioè una città afona, acefala, rassegnata, assuefatta? Questioni senza risposta, o meglio con risposte che non sempre appaiono comprensibili se si usa il solo criterio della razionalità classica. E non limitate all’ex capitale dei Borbone. Dopotutto a Roma c’è una sindaca della quale per cinque anni s’è detto tutto il male possibile e che oggi decide di ricandidarsi e raccoglie consensi di tutto rispetto nei sondaggi. Forse il problema non sono soltanto i napoletani.
 

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