editoriali
La solita fuffa gialloverde su Mps
Matteo Salvini, Giuseppe Conte e l’asse sovranista sulle banche: agire poco, protestare molto
Certi amori, si sa, non finiscono. E quello tra Lega e M5s per il fantasovranismo bancario ha fatto il suo immenso giro per tornare a professare lo stesso verbo intorno a Mps. “No alla svendita, ci vuole più tempo”, grida Matteo Salvini. “No alla svendita, prendiamo tempo”, concorda la grillina Carla Ruocco. Ed entrambi vagheggiano improbabili “operazioni ispirate alla creazione di realtà significative e più competitive” (cit. Ruocco), ovvero la “creazione del terzo polo bancario italiano, avvicinando a Mps, con la regia dello stato, altri istituti emiliani, liguri o pugliesi per poter trasformare Mps nella Banca dei Territori” (cit. Salvini, che più che un terzo polo prospetta un lazzaretto di banche decotte, come Carige e PopBari).
Del resto, i loro propositi, leghisti e grillini li avevano chiariti nel famigerato contratto di governo gialloverde che, “con riferimento a Mps”, sanciva che “lo stato azionista deve provvedere alla ridefinizione della mission e degli obiettivi dell’istituto di credito in un’ottica di servizio”. Semmai, di fronte al riproporsi di questa amorevole corrispondenza di sovranisti sensi, colpisce pensare che, nell’anno e mezzo di governo nazionalpopulista, nulla è stato fatto su Mps che tendesse a proporre una ancorché vaga alternativa all’unica soluzione possibile, se non obbligata: e cioè la vendita a UniCredit. Né appare più ragionevole questa richiesta di “prendere tempo”.
La scadenza del 31 dicembre 2021 fu concordata con Bruxelles nel 2017. Per cui, quando Giuseppe Conte dice che “il governo deve farsi valere con l’Europa per avere più tempo”, non si capisce perché, a “farsi valere con l’Europa”, non abbia provveduto durante i suoi due anni e mezzo trascorsi a Palazzo Chigi. Quanto alle condanne che M5s e Lega distribuiscono a piene mani oggi all’indirizzo delle passate gestioni del Monte “targate Pd”, occorre ricordare che nell’aprile del 2019, il Mef s’oppose alle azioni di responsabilità verso Profumo, Viola e soci. Il ministro allora era Giovanni Tria: lo stesso che oggi è consulente del leghista Giorgetti al Mise.