EDITORIALI
L'effetto sciagurato del “purché donna”
Le politiche identitarie estremizzate fanno male soprattutto a sinistra
Roberta Metsola, nuova presidente del Parlamento europeo, è una conservatrice maltese. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, è una conservatrice tedesca. Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, è una conservatrice francese. Valérie Pécresse, candidata all’Eliseo, è una conservatrice francese. Marine Le Pen, candidata all’Eliseo, è una conservatrice francese (tendenza estrema). Giorgia Meloni, leader dei Fratelli d’Italia e presidente dei Conservatori e riformisti europei, è una conservatrice italiana (tendenza estrema). La Germania è stata guidata negli ultimi sedici anni, fino al dicembre scorso, da Angela Merkel, conservatrice tedesca. Il Regno Unito ha avuto due premier donne, Margaret Thatcher e Theresa May, entrambe conservatrici.
Il mondo progressista ha e ha avuto le sue leader, ma la fotografia politica dell’occidente di questi giorni mostra una preminenza di esponenti femminili nei partiti di destra, e questo, oltre ai tanti e purtroppo soliti interrogativi sulla formazione delle classi dirigenti e il ruolo delle donne in essa, pone una questione più puntuale e più dolorosa a sinistra: com’è che la logica dell’equilibrio di genere nella politica, meglio conosciuta come “serve una donna”, tanto cara, e giustamente, alle sinistre non ha contribuito a creare una solida e continuativa leadership femminile? Forse la risposta sta nel fatto che la ricerca di una donna in quanto donna, il famigerato “purché donna” e l’applicazione ideologizzata delle quote rosa, stravolge gli ideali e le battaglie di uguaglianza delle donne e per le donne. Se quel che conta è il fatto di essere donna, non le idee, non il programma, non l’esperienza, ma soltanto il gender, la lotta è perduta e l’ossessione per le politiche identitarie si rivela un fallimento. Martin Luther King voleva che il colore della pelle non contasse, non certo contare in quanto nero.