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Mattarella all'assemblea di Confindustria: "Economia in salute favorisce il benessere della democrazia""

A Roma l'annuale appuntamento con i vertici dell'associazione confindustriale. Bonomi: "Salario minimo non è la soluzione". Tra le prime file Marina Berlusconi

Redazione

Si è tenuta questa mattina a Roma l'assemblea generale di Confindustria. Presenti anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto da una standing ovation della platea al suo arrivo. "Se c'è qualcosa che una democrazia non può permettersi è di ispirare i propri comportamenti, quelli delle autorità, quelli dei cittadini, a sentimenti puramente congiunturali. Con il prevalere di inerzia ovvero di impulsi di ansia, di paura", è stato uno dei passaggi iniziali del suo discorso. Che ha molto insistito sul legame che c'è tra un economia e libertà. "Un'economia in salute contribuisce al bene del sistema democratico e della libertà, alla coesione della nostra comunità", ha detto Mattarella. Il capo dello stato ha ricevuto un lungo applauso al termine del suo intervento.

In platea presente anche la premier Giorgia Meloni, di ritorno dal viaggio a Budapest di ieri. Tra le prime file siede anche Marina Berlusconi, ad di Mondadori. 

"Il mio unico appello alla politica è: guardatevi bene dal compiere gli errori di sempre, progettando interventi ispirati da una dialettica divisiva", ha detto il presidente di Confindustria Carlo Bonomi nel suo discorso. Aggiungendo che "il salario minimo non è la soluzione". 

 


 

Pubblichiamo qui di seguito il discorso integrale tenuto dal presidente della Repubblica: 

 

Rivolgo un saluto di grande cordialità ai Presidenti del Senato, della Camera dei Deputati, del Consiglio dei Ministri, al Presidente e all’intero mondo di Confindustria, a tutti i presenti.

Ringrazio anch’io la Banda dei Vigili del Fuoco per la bella esecuzione dell’Inno nazionale.

E vorrei rivolgere i complimenti agli autori del filmato così coinvolgente.

Se vi è qualcosa che una democrazia non può permettersi è di ispirare i propri comportamenti, quelli delle autorità, quelli dei cittadini, a sentimenti puramente congiunturali. Con il prevalere di inerzia ovvero di impulsi di ansia, di paura.

Con due possibili errori: una reazione fatta di ripetizione ossessiva di argomenti secondo i quali, a fronte delle sfide che la vita ci presenta quotidianamente, basta denunziarle senza adeguata e coraggiosa ricerca di soluzioni. Quasi che i problemi possano risolversi da sé, senza l’impegno necessario ad affrontarli.

Oppure - ancor peggio - cedere alle paure, quando non alla tentazione di cavalcarle, incentivando - anche contro i fatti - l’esasperazione delle percezioni suscitate.

Sono questioni ben presenti alle persone raccolte qui questa mattina che, giorno dopo giorno, sono chiamate ad assumere decisioni, ad agire con razionalità e concretezza, a guardare e progettare il futuro delle imprese che si trovano a guidare.

In un’espressione: a evitare fatui irenismi e credere, invece, nella forza delle istituzioni, nella solidità delle proprie imprese, nel valore dell’iniziativa e dell’innovazione nel mondo che cambia velocemente.

È il senso del messaggio che Luigi Einaudi - primo Presidente della Repubblica eletto - consegnava il 31 marzo del 1947, nelle Considerazioni finali da Governatore della Banca d’Italia, a poche settimane dall’assumere le funzioni di vice Presidente del Consiglio e Ministro del Bilancio del Governo De Gasperi.

A proposito della situazione economica, Einaudi scriveva: “È necessario che gli italiani non credano di dover la salvezza a nessun altro fuorché se stessi”.

Oggi diremmo: a noi stessi e agli altri popoli con i quali abbiamo deciso di raccoglierci nell’Unione Europea.

Ringrazio Confindustria di questa occasione di riflessione, e rinnovo un saluto cordiale a tutti voi qui riuniti.

Nel discorso con cui Franklin Delano Roosevelt inaugurò la sua presidenza degli Stati Uniti - giusto novant’anni fa - utilizzò una locuzione divenuta, giustamente, famosa, che calza a proposito: “la sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa, l’irragionevole e ingiustificato terrore senza nome che paralizza gli sforzi necessari a convertire la ritirata in progresso”.

Si era nell’ambito della Grande depressione economica del 1929 e si fu capaci di passare al New Deal, al “nuovo patto” che vide gli Stati Uniti affrontare i drammatici problemi economici e occupazionali che li avevano devastati, assumendo la leadership del mondo libero.

Oggi siamo in una condizione, fortunatamente, ben diversa, che ci conduce, tuttavia, a richiamare il legame, per quanto possa a molti apparire scontato, tra economia e democrazia.

La crisi del capitalismo, in quegli anni, mise in discussione anche gli ordini politici esistenti, registrando un diffuso malcontento verso la democrazia, ritenuta noiosa e inefficace rispetto ai totalitarismi che si erano affacciati e che si stavano consolidando.

Gli argomenti non erano nuovi, qualche studioso li indicava nella ricerca di un sentimento di unità perduto, che fosse incentrato sulla autenticità culturale, sulla originalità delle proposte di comunismo e fascismo, sulla creazione di “uno spazio affrancato – così si diceva - dalle pressioni della mercificazione e dalle grigie logiche dei mercati”. Così testualmente ricorda Harry Harootunian, storico americano.

Le idee dovevano essere davvero confuse se una casa automobilistica americana, la Studebaker, sia pure con intenti diversi, denominava un suo prodotto di punta “Dictator”, dittatore. L’ascesa di Hitler in Germania avrebbe dato poi un colpo decisivo alla produzione di quel modello.

In alcune situazioni europee, com’è noto, la crisi dell’economia concorse alla crisi della democrazia ed ecco perché, al contrario, una economia in salute contribuisce al bene del sistema democratico e della libertà, alla coesione della nostra comunità.

Il Presidente Bonomi ha fatto riferimento a un panorama di democrazie in regresso a livello mondiale, affermando, opportunamente, che “senza democrazia non possono esserci né mercato, né impresa, né lavoro, né progresso economico e sociale”.

È rilevante raccogliere questi stimoli in un ambito così qualificato.

È di grande valore che il mondo dell’industria italiana, così centrale nella vita del Paese e così prezioso nell’ambito dell’Unione Europea, sappia di contribuire, con il suo impegno e con il suo lavoro, al rafforzamento della Repubblica e delle sue istituzioni, secondo la significativa affermazione: “la Costituzione esprime anche l’anima delle imprese italiane”.

Nel dibattito pubblico del dopoguerra italiano si è, spesso, lamentato che la Costituzione non poteva fermarsi ai cancelli delle fabbriche, segnalando, con questo, una sofferenza del sindacato dei lavoratori per molti temi che hanno trovato poi riscontro nella contrattazione tra le parti sociali.

La definizione poc’anzi prospettata nella relazione, secondo cui “L’impresa è lo spazio democratico in cui i valori del bene comune e della responsabilità sociale devono manifestarsi nella loro concretezza, così come è accaduto nei mesi durissimi della pandemia”, unitamente all’intento di proporre un mercato del lavoro “inclusivo”, specialmente per giovani e donne - che renda quindi effettivo il diritto al lavoro - induce alla consapevolezza che i luoghi di vita, le persone, i cittadini che li animano, sono parte, irrinunciabile, del progetto di coesione sociale, di libertà, di diritti e di democrazia della Repubblica.

La democrazia si incarna nei mille luoghi di lavoro e di studio.

Nel lavoro e nella riflessione dei corpi sociali intermedi della Repubblica.

Nel riconoscimento dei diritti sociali.

Nella libertà d’intraprendere dei cittadini.

Prima di ogni altro fattore, a muovere il progresso è, infatti, il “capitale sociale” di cui un Paese dispone.

Un capitale che non possiamo impoverire.

È una responsabilità che interpella anche il mondo delle imprese: troppi giovani cercano lavoro all’estero, per la povertà delle offerte retributive disponibili.

Permettetemi di ricordare, per un momento, un gran lombardo, un patriota, fautore delle autonomie e portatore di una visione lungimirante, Carlo Cattaneo.

Già nel 1864 ammoniva: “Prima di ogni lavoro, prima di ogni capitale, quando le cose sono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera e imprime in esse, per la prima volta il carattere della ricchezza”.

Le aziende sono al centro di un sistema di valori, non soltanto economici.

Siete voi, a ricordare - anche a me - che l’impresa ha responsabilità che superano i confini delle sue donne e dei suoi uomini; e, aggiungo, dei suoi mercati.

Le imprese sono veicoli di crescita, di innovazione, di formazione, di cultura, di integrazione, di moltiplicazione di influenza, fattore di soft-power.

E sono, anche, agenti di libertà.

Generare ricchezza è una rilevante funzione sociale.

È una delle prime responsabilità sociali dell’impresa.

Naturalmente, non a detrimento di altre ricchezze, individuali o collettive.

Non è il capitalismo di rapina quello a cui guarda la Costituzione nel momento in cui definisce le regole del gioco.

Il principio non è quello della concentrazione delle ricchezze ma della loro diffusione.

Il modello lo conosciamo: è quello che ha fatto crescere l’Italia e l’Europa.

Il bilancio che ne va tratto non interpella i singoli stake-holder aziendali ma si rapporta all’intero sistema economico e sociale.

È quel concetto ampio di “economia civile” che trova nella lezione dell’illuminismo settecentesco napoletano e, puntualmente, in Antonio Genovesi, un solido riferimento.

Qual è un principio fondamentale della democrazia?

Evitare la concentrazione del potere, a garanzia della libertà di tutti.

Vale per le istituzioni.

Vale per le imprese, a proposito delle quali possiamo parlare di concorrenza all’interno di un mercato libero. E la lotta ai monopoli ne rappresenta capitolo importante.

L’impresa è una formazione intermedia nella nostra società, un corpo sociale di quelli richiamati dalla Costituzione che contribuiscono alle finalità da questa definite, concorrendo al soddisfacimento di bisogni.

Lo Stato coordina gli interessi e le necessità di ciascuno degli interlocutori, orientandoli al soddisfacimento delle istanze delle comunità.

Poc’anzi ho richiamato il tema sostanziale del rapporto sostanziale tra economia e istituzioni.

L’impresa, non a caso - è stato ricordato - è normata nella Parte I della Costituzione: quella sui diritti e i doveri dei cittadini.

L’art. 41 scandisce che l'iniziativa economica privata è libera. Che non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

Cosa significa libera?

Significa che non vi è più bisogno di “regie patenti”, come ai tempi medievali, per esercitare una professione, un’attività, un’impresa.

Significa che la Repubblica ha spostato dal Sovrano al cittadino il potere di scegliere, di decidere.

Significa evadere dal dirigismo economico e dal protezionismo tipico delle esperienze autoritarie.

Significa trasferire sul terreno dell’economia il principio di libertà.

La Costituzione opta decisamente per un’economia di mercato in cui la libertà politica è il quadro entro cui si inserisce la libertà economica, le attività con le quali le imprese partecipano, come si è detto, a raggiungere le finalità delineate nella Prima parte della Costituzione.

Ma attenzione: in quali condizioni si attua il precetto costituzionale?

Quando i poteri pubblici assicurano qualità nei servizi; efficacia, efficienza e chiarezza del sistema normativo; quando viene garantita sicurezza contro le forme assunte dalla criminalità; quando l’efficacia sanzionatoria verso comportamenti scorretti è equa e incisiva.

Sono temi che conoscete bene e che richiedono ancora impegno per il loro pieno conseguimento.

Si è discusso a lungo sull’esistenza di una “Costituzione economica” separabile dal resto della Costituzione.

Sarebbe davvero singolare immaginare percorsi separati per lo sviluppo dei rapporti economici, quelli politici, quelli sociali.

Al centro della Costituzione vi sono, difatti, i diritti della persona umana non quelli del presunto “homo oeconomicus”.

Ecco, quindi, il riferimento all’utilità sociale. Era l’Abate Galiani a dirci – anche lui nel ‘700 - che “la tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”.

Il crescere delle disuguaglianze rischia di rendere attuale questo scenario.

Le imprese non sono estranee all’art.3 della Carta che ricorda come sia compito della Repubblica - in tutte le sue articolazioni pubbliche e di spontanea attività e iniziativa privata - “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

L’Italia progredisce e si sviluppa con il dialogo tra le parti sociali.

Vanno tenuti ben presenti – sempre e da tutti, in ogni ambito - i doveri descritti all’articolo 2, dove si esige " l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

L’economia di mercato, cioè, non pone in discussione valori costituzionalmente rilevanti, quali il rispetto della dignità umana e il dovere di solidarietà. O l’art. 35, relativo alla tutela del lavoro, il 36, sulle condizioni di lavoro, o il 37 sulla donna lavoratrice.

È anzitutto il tema della sicurezza sul lavoro che interpella, prima di ogni altra cosa, la coscienza di ciascuno. Democrazia è rispetto delle regole, a partire da quelle sul lavoro.

Indipendentemente dall’ovvio rispetto delle norme, sarebbero incomprensibili imprese che – contro il loro interesse - non si curassero, nel processo produttivo, della salute dei propri dipendenti.

Incomprensibili se non si curassero di eventuali danni provocati all’ambiente, in cui vivono e vivranno.

Incomprensibili – e di breve durata - se non sapessero guardare al futuro.

Fuor di logica se pensassero di non dover rispondere ad alcuna autorità o alla pubblica opinione, in merito a eventuali conseguenze di proprie azioni.

Con eguale determinazione vanno rifiutate spinte di ingiustificate egemonie delle istituzioni nella gestione delle regole o, all’opposto, di pseudo-assolutismo imprenditoriale, magari veicolato dai nuovi giganti degli “Over the top” che si pretendono, spesso, “legibus soluti”.

Democrazia e mercato – scrive, nel suo ultimo libro, Martin Wolf - hanno in comune l’idea di uguaglianza e concorrono entrambi alla sua attuazione.

Non c’è bisogno di particolare acume per osservare che gli imprenditori sono attori sociali essenziali nella nostra società.

Basta pensare anche soltanto alla crisi della pandemia che abbiamo attraversato quando, insieme ad altre categorie, avete evitato che l’Italia si fermasse.

Non siamo un Paese senza memoria.

Ho più volte ringraziato quanti negli ospedali, nei servizi, nelle aziende, nelle catene della logistica, nella pubblica amministrazione, hanno fatto sì che fronteggiassimo quell’improvvisa, sconosciuta e drammatica insidia.

Grazie a voi. Che avete avuto coraggio, che avete anche fatto delle vostre fabbriche dei centri vaccinali in supporto a quelli pubblici!

Grazie ai lavoratori delle vostre aziende che hanno assunto, con altrettanto coraggio, la propria quota di rischi!

Siete stati, poi, protagonisti di una ripresa prodigiosa e positivamente contagiosa, senza eguali nei G7.

Adesso tante imprese sono state colpite da alluvioni. Le avversità si manifestano su più fronti.

L’interrogativo è: la nostra comunità è adeguatamente resiliente?

È sufficientemente desiderosa di futuro, di voler guardare avanti?

Abbiamo fiducia nel nostro Paese e nel suo futuro; e sapere di avere il mondo dell’impresa impegnato, con convinzione e con capacità, per il progresso dell’Italia, è motivo di conforto e di grande apprezzamento.

Auguri!

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