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l'analisi

La guerra dell'occidente per difendere l'Ucraina è senza strategia

Oscar Giannino

Nessun piano di lungo periodo: Stati Uniti ed Europa sono ancora divisi su che tipo di armi inviare a Kyiv. Finte verità da confutare senza paraocchi: la debolezza di Putin, la sconfitta della Russia col diritto internazionale

L’invasione russa dell’Ucraina è in corso da 26 mesi. Se andate sul portale di Correlates of War, uno dei più seri progetti che accumuli in maniera scientifica tutti i maggiori dati noti dei conflitti tra stati negli ultimi 200 anni, troverete che la guerra russo-ucraina supera in durata oltre il 90 per cento dei conflitti avvenuti e che, ricadendo invece nel 10 per cento di lunghe guerre d’attrito, la loro media è di 962 giorni con numerose punte in cui si è combattuto per più anni ancora (a parte i conflitti mondiali, ad esempio il Vietnam e gli otto anni di Guerra Iran-Irak). 

Se c’è una cosa su cui tutti gli studiosi di dottrina militare delle più diverse scuole concordano, è che i conflitti lunghi richiedono ancor più di quelli brevi enorme chiarezza strategica sin dall’inizio, sia per chi li combatte, sia per chi li sostiene. Mettiamo il primo punto fermo. Mentre l’Ucraina ha una sua strategia molto chiara sin dall’inizio, l’occidente invece non se l’è mai data. Non ce l’hanno né gli Stati Uniti, né l’Unione Europea, né i maggiori paesi membri della Ue.

La strategia ucraina si riassume in tre semplici punti, molto impegnativi. Recuperare per intero la sua sovranità nazionale e i confini del 1991. Ricostruire il paese e perseguire la più stretta integrazione possibile con Ue e Nato. Infine, ottenere i primi due obiettivi creando una cornice internazionale di vasta convergenza sulla necessità di portare alla sbarra i responsabili dei crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati dai russi. Un’agenda che per numerosi politici, partiti e governi occidentali era massimalista sin dall’inizio, velleitaria poi, e oggi divenuta pressoché impossibile da perseguire. Nel 2022 erano solo in pochi in occidente a dirlo apertamente, col tempo la schiera dei dubbi e dei distinguo espliciti si è andata ingrossando. Tanto più oggi con il medio oriente di nuovo arroventato.

 

Eppure la storia insegna molto, sugli errori da evitare in termini strategici se si devono affrontare conflitti lunghi e sanguinosi. Ad esempio, Il presidente americano Roosevelt era convinto fin dal 1939 che fosse pressoché impossibile evitare il coinvolgimento degli Stati Uniti nel grande conflitto che sarebbe stato scatenato dai nazisti insieme alle potenze dell’Asse. Ma, consapevole del fatto che la maggioranza degli elettori americani preferiva in realtà tenersene estranei, cominciò appunto in largo anticipo nei suoi discorsi pubblici a fare passaggi sempre più espliciti sul dovere americano di difendere libertà e democrazia. E, soprattutto, molto allarmato dall’assoluta debolezza dello strumento militare statunitense, in larghissima parte smantellato alla fine del primo conflitto mondiale e nella grande crisi post 1929 tanto che le forze armate Usa potevano contare solo su 119 mila uomini alle armi, Roosevelt fece organizzare nei 30 mesi precedenti a Pearl Harbor ben cinque conferenze riservate, in cui i vertici militari e della segreteria di stato, quelli delle maggiori corporation e decine di accademici, tutti impegnati al segreto, si confrontarono nel dibattere i report redatti da numerosi gruppi di lavoro creati ad hoc, sui diversi aspetti da considerare per definire fini e strumenti necessari alla strategia americana nel conflitto a venire. Gli atti sono ormai pubblici, cinque volumoni con relazioni e allegati tecnici. In cui si passano in rassegna tutti i temi più essenziali, a cominciare dal peso da attribuire all’impegno militare americano in tempi diversi a distinti teatri di guerra, Pacifico e Atlantico, Africa ed Europa, con tanto di stime accurate di armi, mezzi e uomini necessari. Senza questa riflessione tecnica e meticolosamente approfondita, non sarebbe stato possibile agli Stati Uniti passare a 4,2 milioni di uomini alle armi in pochi mesi, né virare con tanta programmazione quasi ogni settore della produzione all’economia di guerra, né aver chiaro gli obiettivi prioritari scacchiere per scacchiere ancor prima che l’entrata in guerra avvenisse. Sino a disegnare le basi per l’Europa post nazista e fascista: il primo accenno alla Nato che sarebbe venuta molto dopo è nel cosiddetto Plan Dog Memorandum, presentato a Roosevelt nel 1940.

Se veniamo alla guerra in Ucraina, non c’è stato niente di simile. Né su una sponda dell’Atlantico, né sull’altra. Dai tempi di Obama, il pensiero ufficiale delle amministrazioni Usa era che la Russia di Putin fosse un paese sull’orlo del disastro economico, in colossale ritardo tecnologico, militarmente oramai una potenza regionale. Una potenza regionale con 4.380 testate nucleari operative e altre 1.200 stivate ma mai smantellate, singolare no? Usa, Nato e Unione Europea hanno così assistito negli anni alla spirale dei diversi attacchi militari con i quali Putin è passato dalle parole ai fatti, Cecenia, Ossezia, Georgia, Crimea, Donbass, senza troppo modificare la propria valutazione. Nel 2022, Biden esitò otto mesi, prima di pronunciare un vero e proprio discorso agli americani sulla guerra in atto in Ucraina. 

Non è stata condotta un’analisi approfondita e articolata poi in conclusioni ufficiali su ciò che il professor Vittorio Emanuele Parsi pone giustamente al centro dei suoi ottimi libri e interventi dedicati in questi anni alla questione russo-ucraina. Usa e occidente sono chiamati a “ripensare la guerra”: dove ripensare non significa poterla escludere, correlata come appare da sempre alla storia umana, bensì definirla con chiarezza rispetto ai contesti odierni, alla situazione geopolitica odierna, e a che cosa sono diventate le armi odierne con sui la guerra si combatte, e  pianificando tutte le risorse finanziarie, produttive e umane necessarie. Senza di questo, ripete sempre Parsi, l’occidente è perduto. La vicenda ucraina è diventata la prova amara di ciò che Parsi scrive. Usa e occidente sono ancora divisi dopo due anni su che tipo di armi dare all’Ucraina. L’aiuto militare occidentale non è stato caratterizzato da alcuna visione di lungo periodo che discendesse dalle risposte ai tre obiettivi strategici dell’Ucraina, e permettesse agli ucraini una seria pianificazione tattica e strategica di medio-lungo periodo sul campo. E’ vero, molti paesi occidentali hanno mandato aiuti militari. E nella Nato sono entrati paesi tradizionalmente neutrali, che non ne facevano parte ma davanti al militarismo stragista di Putin hanno cambiato idea. Ma gli aiuti militari sono arrivati o non sono arrivati agli ucraini come mera reazione più o meno accelerata a ciò che avveniva di volta in volta sul campo. Di qui ad esempio il malfondato ottimismo sulla controffensiva ucraina dell’estate 2023 che avrebbe dovuto far breccia su ben tre successive linee di difesa nel Donbass che la Russia aveva avuto tempo di preparare indisturbata, controffensiva inevitabilmente poi arenatasi perché condotta, contro ogni manualistica militare, in assenza di superiorità aerea. 

 

Tutti i mesi da ottobre 2023 ad aprile 2024, quando il Congresso Usa si è finalmente deciso ad approvare una nuova consistente tranche di sostegni militari, hanno evidenziato sempre nuovi distinguo, dubbi e mal di pancia dei governi occidentali, con la solita eccezione dei Paesi baltici e della Polonia che fin dall’inizio, memori del loro passato, hanno avuto le idee chiare sulle finalità strategiche da perseguire perché l’Ucraina vinca. Se esaminiamo la delibera adottata dal Congresso per dare il via libera all’ultimo pacchetto di aiuti all’Ucraina, una sorta di succinto Libro Bianco, i parlamentari americani sono consapevoli della mancanza di una strategia chiara. Affidano per questo all’Amministrazione Biden il compito di delinearla, ancorandola su cinque pilastri. Gli obiettivi da perseguire nel conflitto partono dall’assicurare la piena integrazione di un’Ucraina vittoriosa nella Ue e nella Nato; l’abbattimento della capacità dimostrata dalla Russia di aggirare le sanzioni; una vera mobilitazione di ogni agenzia federale in coordinamento con i paesi alleati nella lotta alla disinformazione posta in atto su vasta scala e quotidianamente dai russi su internet e media; un piano serio pluriennale di rafforzamento dell’arsenale a difesa degli Usa e della Nato; infine il pieno sostegno alla ricostruzione e al rilancio dell’economia e della democrazia ucraina. In sintesi, cinque punti sui quali la strategia occidentale in oltre due anni non si è chiarita davvero le idee, al di là di migliaia di dichiarazioni.  Né questo processo è avvenuto all’interno del Gruppo di contatto Ucraina, pur tempestivamente lanciato dal ministro della Difesa americano Lloyd Austin a fine aprile del 2022, e che tiene regolari incontri tra ministri della Difesa e capi di stato maggiore di decine di paesi occidentali nella base aerea di Ramstein. 

Prendendo alla lettera i pilastri posti dal Congresso Usa per dare un senso strategico agli aiuti all’Ucraina, i dossier di cui occuparsi sono numerosissimi, complessi e di attuazione lunghissima. Per averne un’idea, consiglio la lettura del saggio che hanno in scritto in proposito Elizabeth Hoffman e Benjamin Jensen, direttori di ricerca su politica internazionale e di sicurezza del Center For Strategic & International Studies (pubblicato sul sito dell’istituto il 15 maggio scorso). L’Unione Europa ha sì rapidamente aperto (rapidamente sui fa per dire, formalmente ci sono voluti 18 mesi, ma la media precedente era 36) il dossier dell’adesione che era stata richiesta dall’Ucraina pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione russa. Ma la decisione è stata di aprire ben 35 tavoli di riforme perché l’Ucraina sia pienamente in linea con gli standard europei, dalla sicurezza del cibo alle emissioni di CO2. Come se non fosse un paese impegnato in guerra, per la vita e per la morte. L’adesione alla Nato resta materia di dissensi, sotto il tappeto. Il meeting Nato a Bucarest del 2008 aveva accettato la richiesta ucraina di aprire formalmente il dossier di adesione. Il suo iter fu posto in naftalina fino al 2014, sotto il presidente filorusso Yanuckovych. Quando questi abbandonò il paese sotto le pressioni delle proteste di massa democratiche degli ucraini, Putin si prese la Crimea e pronunciò il suo editto “mai l’Ucraina nella Nato” Il parlamento ucraino nel 2017 rinnovò la richiesta alla Nato, con tanto di emendamento alla Costituzione per renderla possibile. L’invasione russa ha ricongelato ogni cosa. Il segretario generale della Nato Stoltenberg a ogni vertice dell’Alleanza ripete che l’adesione dell’Ucraina è obiettivo da accelerare, ma a due condizioni: che tutti gli alleati siano d’accordo e che l’Ucraina sia vincitrice sul campo. La prima condizione oggi è assai più lontana di 20 mesi fa, la seconda si è indebolita moltissimo con la stasi degli aiuti occidentali. Sarà interessante vedere come il tema sarà trattato a inizio luglio a Washington, quando si terrà il summit speciale Nato per il suo 75° anniversario. 

 

Il sì senza esitazioni all’Ucraina nella Nato non è una questione di simpatia verso Zelensky, o di rispetto per le migliaia e migliaia di vittime ucraine, militari e civili. Il sì dovrebbe venire da una visione condivisa degli alleati su relazioni e paletti da porre e difendere in tutta l’area esteuropea e balcanica, non solo Polonia e Paesi baltici ma dall’Ungheria alla Moldavia e Transnistria, alla Goeorgia su cui avanzano gli artigli di Putin col solito sistema delle quinte colonne interne. In Europa non c’è consenso sulla gittata delle armi missilistiche da fornire all’Ucraina, figuriamoci sui paletti ai filorussi da alzare in Georgia, Moldavia e Ungheria. Quanto alla redazione di un accordo stringente Nato e Ue su una vera rete di cooperazione sui massicci investimenti necessari per tutti i sistemi avanzati con cui la guerra si combatte ora, come dimostrato in Ucraina, l’Europa non ha una convergenza simile al suo interno e a dire il vero non ce l’ha neanche la Nato. Su sistemi, piattaforme, missili, sensoristica, piattaforme aeree pilotate e non pilotate, naviglio di superficie e subacqueo, reti satellitari e dorsali sottomarine, il campo occidentale è il regno di collaborazioni tra grandi gruppi produttivi del settore della difesa realizzate senza che il procurement dei governi converga su standard comuni e interoperabili. Una pacchia, per Putin e la Cina. 

Quanto alla ricostruzione dell’Ucraina, ormai la stima supera i 500 miliardi di dollari come ordine di grandezza, e aumenta ogni settimana. Le conferenze internazionali di generosi donatori si sono sprecate, ma un programma unitario dell’occidente non c’è. La Ukraine Financial Facility varata dalla Ue nel 2022 ammontava a 50 miliardi di euro. Di questi, nel 2022-23 sono stati versati all’Ucraina circa 23 miliardi, in primis per sostenere il suo bilancio pubblico piegato dalla guerra, e l’ultima tranche di 6 miliardi è stata versata nel marzo scorso. I paesi membri Ue, singolarmente, hanno deliberato prestiti e garanzie finanziarie all’Ucraina per circa 13 miliardi di euro. Gli Stati Uniti a propria volta, considerate le quote per sostegno finanziario in ogni pacchetto di aiuti compreso l’ultimo di aprile, hanno deliberato sin qui 175 miliardi di dollari di aiuti all’Ucraina, di cui una settantina sono di sostegno finanziario. Se fate la somma, siamo a non più di un quinto della stima complessiva necessaria.

Per elaborare una strategia efficace, bisogna infine liberarsi dell’andamento randomico di alcuni assunti di base. Primo, la Russia è debole o forte? L’occidente ha pensato per due decenni del Duemila che la Russia fosse militarmente sempre più debole. E’ tornato a crederlo nelle due controffensive ucraine del 2022 e del 2023. Ora invece sembra rinculare, di fronte all’idea che i russi siano molto forti. E alla fine tanto vale aspettare che la difesa ucraina si esaurisca, e trattare accettando di lasciare a Putin i suoi territori occupati, cioè il diritto di prendersene altri. E’ verissimo che sin qui l’Ucraina ha retto grazie agli aiuti militari occidentali. Dosati però apposta perché non potesse vincere davvero, come invece si proponeva. Ma è altrettanto vero che negli ultimi 18 mesi i russi hanno enormemente potenziato alcune loro capacità militari, in primis l’elettronica grazie all’apporto cinese. Sono diventati molto più efficaci nell’abbattere e deviare droni e missili e nell’accecare e distruggere impianti radar ucraini.  Non è solo l’enorme bacino di carne da cannone di richiamati provenienti da oblast asiatici lontanissimi da Mosca e Pietroburgo, la forza della ripresa militare russa. Sta nella tecnologia, nella certezza di poter scagliare indisturbate ondate di missili da vettori aerei e navali al di fuori dello spazio aeree e marittimo dell’Ucraina, nell’aver moltiplicato per quattro la media mensile di produzione di missili di precisione rispetto al preinvasione. Bisogna smetterla di considerare debole la Russia: attualmente la Nato in Europa sarebbe più sguarnita dell’Ucraina, se Putin le riservasse attenzioni belliche comparabili.       

 

Secondo assunto: sconfiggeremo la Russia col diritto internazionale. In teoria giustissimo. Ma no, perché questo possa avvenire negli ultimi 30 mesi l’occidente avrebbe dovuto perseguire una strategia seria mondiale di isolamento di Putin. Ad esempio, nel secondo conflitto mondiale in Europa c’erano anche contingenti brasiliani a fianco degli Alleati contro il nazi-fascismo. Invece non lo abbiamo fatto: oggi all’aggiramento delle sanzioni verso la Russia si stima cooperino una novantina di paesi nel mondo, e al meccanismo partecipano fior fiore di grandi gruppi del mercato occidentale. 

Terzo: bisogna evitare a ogni costo la guerra tra occidente e Putin. Un’altra finta verità. La malta ideologica che unisce i Salvini e i Tarquinio, i trumpiani e i Fratoianni, Bergoglio e Padre Kirill metropolita della Chiesa ortodossa russa che benedice i tank di Putin. Diciamolo chiaro: certo che non è l’occidente a dover far guerra a Putin. E’ Putin che l’ha dichiarata a parole e nei fatti, da anni. Se l’occidente ritiene di fingere che non sia così, non ha abbastanza riflettuto sul passato. Se ci crediamo eterni a prescindere dai mezzi adeguati a battere tiranni assassini, abbiamo dimenticato perché l’Impero babilonese fu spazzato via da quello assiro, perché quello neobabilonese cadde sotto i colpi dei persiani, perché quello persiano fu abbattuto da Alessandro Magno. Nessun sistema politico-militare dura per sempre se convinto della propria imbattibilità, cade invece sempre quando non sa affrontare uno spietato nemico.    

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