Giorgia Meloni - foto Ansa

L'editoriale del direttore

È ora della maggioranza gialloblù. Le europee e la svolta che serve a Meloni

Claudio Cerasa

Un patto con i nemici del passato (compresa Schlein) per proteggersi dai nemici del presente: è la scelta che ha davanti Meloni nella prospettiva di un patto ultra largo a Bruxelles, per un’Europa più solidale e propensa a difendere l’Ucraina dai nemici della nostra libertà. La normalità dell’Italia rispetto al pazzo resto d’Europa

Ci sarà tempo per capire se il vecchio Terzo polo comprenderà quanto sia stato dannoso e politicamente insensato correre alle europee senza unire tutte le forze (eppure i centristi sapevano già prima del 9 giugno che la casa in Europa è la stessa, Renew Europe, ed è la stessa che ora dovrà capire se riuscirà a sfruttare i nuovi equilibri elettorali per provare a far entrare nella partita delle nomine europee l’ex premier Mario Draghi). Ci sarà tempo per tutto questo ma nel momento in cui stiamo scrivendo le certezze postelettorali, per quanto riguarda l’Italia, sono tre, riguardano tutte Giorgia Meloni e riguardano tutte uno scenario non difficile da immaginare quando tutti i tasselli del dopo europee andranno al loro posto: la nascita di una grande, grandissima, pazza e formidabile coalizione europea, unita dalla volontà di avere un’Europa più solidale, più integrata e ancora più propensa a fare tutto il necessario per difendere l’Ucraina dai nemici della nostra libertà. Potremmo chiamarla, se volete, la maggioranza Volodymyr, o se volete la maggioranza gialloblù, ed è una maggioranza larga che per forza di cose dovrà mettere insieme tutte le principali forze politiche che guidano i principali partiti europei.

 

 

Il Ppe, naturalmente, che ancora una volta sarà il motore di questa legislatura, seppure con qualche ammaccatura. Il Pse, ovviamente, di cui fanno parte i partiti che guidano la Germania (l’Spd di Scholz) e la Spagna (il Psoe di Sánchez). Renew, naturalmente, che è il partito guidato dal presidente francese Emmanuel Macron. E poi, tra i paesi fondatori, ecco l’Italia di Giorgia Meloni che volente o nolente non potrà che fare la stessa scelta fatta cinque anni fa dal PiS polacco (quando era al governo): dare sia al Consiglio europeo sia al Parlamento europeo un voto favorevole a chi dimostrerà di avere i numeri necessari per guidare la Commissione europea, in nome della maggioranza gialloblù. La scelta numero uno, per Meloni, è sempre Ursula von der Leyen. Ma il nome conta fino a un certo punto e la scelta importante, di maturità, che dovrà compiere Meloni nei prossimi mesi riguarda non il profilo di un candidato da votare ma il profilo di un paese da rappresentare. Che fare? Essere coerenti con il passato, e con ciò che ha detto in campagna elettorale, e schiacciarsi a destra, nella speranza, vana, di poter trovare i numeri di una maggioranza Giorgia, con equilibri simili a quelli italiani, o utilizzare il suo profilo insieme europeista ed euroscettico per provare a essere il punto di equilibrio tra due destre europee che non si parlano?
 

Meloni, in campagna elettorale, ha cercato di creare le condizioni, allargando il perimetro di Ecr, il gruppo europeo guidato dalla premier italiana, per provare a farlo pesare di più. In Ecr potrebbe entrare Orbán, è già entrato Zemmour, potrebbe arrivare anche Le Pen, e altri esponenti della destra estrema europea, più o meno tutti tranne l’AfD e forse la Lega, ancora in cerca di autore in Europa, e per quanto il gruppo europeo di Meloni non sia esattamente il riflesso dell’amore per l’Ucraina, tutto questo potrebbe essere perfettamente compatibile con la prova di maturità meloniana: essere l’anello di congiunzione tra le vedove del putinismo e i sostenitori atlantisti di Zelensky, dando il proprio sostegno potenzialmente decisivo alla prossima e inevitabile maggioranza gialloblù. Una maggioranza di destra, in Europa, per Meloni sarebbe un problema non solo per il suo percorso di crescita ma anche perché tutto quello di cui ha bisogno l’Italia del futuro è incompatibile con l’agenda europea delle destre sovraniste e anche di quelle rigoriste. L’Italia ha bisogno di più solidarietà sui migranti, di più flessibilità sui conti pubblici, di meno intransigenza sul Pnrr, di più alleati per avere nuove emissioni di debito comune, di più paesi disposti a migliorare e rafforzare gli accordi commerciali dell’Europa in giro per il mondo e non c’è nessuno di questi punti compatibile con le priorità che si sono dati gli amici di Meloni in giro per l’Europa. Entrare in una maggioranza gialloblù per Meloni è cruciale per far contare di più l’Italia, per far contare di più l’Europa, per far contare meno le vedove del putinismo e anche per tentare di arginare una minaccia ulteriore che potrebbe manifestarsi alla fine dell’anno e che potrebbe avere nei mesi un impatto pericoloso sulla traiettoria instabile della destra italiana: l’ascesa del trumpismo. Finora, Giorgia Meloni è stata alla larga anni luce da Trump, almeno pubblicamente.
 

Da quando è a Palazzo Chigi non lo ha mai nominato e, nonostante la campagna elettorale americana, non ha mai smesso di mostrare sintonie profonde e affetti politici sinceri con il rivale di Donald, Joe Biden. Meloni, in politica estera, è più vicina a Biden che a Trump, ma per evitare che l’Italia in prospettiva possa improvvisamente e pericolosamente deragliare verso una deriva trumpiana, diventare parte di un grande accordo europeo, anti putiniano, anti populista, dunque anti trumpiano, potrebbe permettere all’Italia di proteggersi dalle eventuali scosse americane e all’Europa di essere meno vulnerabile di fronte alla minaccia trumpiana. Un patto con i nemici del passato per proteggersi dai nemici del presente. Anche a costo di votare – che sballo! – lo stesso presidente della Commissione che voterà il Pd guidato da Elly. È ora di crescere, in Europa. È ora delle maggioranze ultra larghe. È ora di mettere insieme i nemici del putinismo. È ora, in Europa, della maggioranza gialloblù.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.