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Tra referendum e lacune

La legge Calderoli sull'autonomia è un danno anche per il nord

Emilio Del Bono

La riforma-bandiera della Lega fa acqua da tutte le parti: modelli farraginosi, risorse mancanti e numerose contraddizioni con la costituzione: è proprio su questa, piuttosto, che le forze politiche dovrebbero concentrarsi, rimodulando il Titolo V per una seria legislazione che non sacrifichi l'uguaglianza

Si sta scaldando il dibattito sul referendum relativo alla legge Calderoli che disciplina le procedure per il trasferimento delle competenze in materia di Autonomia differenziata. Il tema è complesso e mal si presta ad essere liquidato con uno strumento secco come un referendum abrogativo della legge che, purtuttavia, è divenuto l’unico mezzo possibile per fermare una macchina che purtroppo è partita senza le adeguate riflessioni e condizioni, sia a detta della Banca d’Italia, della Conferenza Episcopale, della Commissione Europea, che dello stesso Ufficio Studi del Senato della Repubblica. Il confronto che si è innescato sul tema oggi appare confuso e rischia (e va detto anche al centro sinistra) di gettare il bambino (un sano processo di regolazione delle Autonomie nel nostro paese) con l’acqua sporca (la legge Calderoli).

  

 

La legge Calderoli ha disciplinato una procedura di negoziazione delle 23 materie trasferibili alle regioni attraverso un modello di regolazione farraginoso, lacunoso, contraddittorio, assai poco convincente. Per esempio sulle materie dove è necessario definire i livelli essenziali delle prestazioni (ovvero 14 su 23) si è gettata, da parte del governo Meloni, la palla assai lontano, ovvero fra 2 anni (il tempo concesso alla Commissione Cassese e al governo per definire i Livelli essenziali delle prestazioni). Due anni, alla conclusione dei quali, peraltro, lo stesso Parlamento non avrà la possibilità di modificare i criteri indicati, ma avrà solo un potere consultivo con il quale esprimere suggerimenti di modifica. La Legge Calderoli chiarisce poi che “si può procedere al trasferimento delle funzioni solo successivamente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie volte ad assicurare i medesimi livelli essenziali delle prestazioni sull’intero territorio nazionale”. Confermando così che senza risorse finanziarie consistenti non si può fare l’autonomia differenziata. Una legge quindi dal contenuto e dalla disciplina dei tempi priva di qualunque certezza e razionalità. Ma per rendere percorribile la negoziazione delle materie trasferibili mancano altri 2 tasselli: il Federalismo fiscale e la Riforma del Testo Unico degli Enti locali. Innanzitutto manca una matura legge regolatoria del Federalismo fiscale ovvero manca la certezza che per ogni competenza trasferita vi sia anche l’autonomia impositiva necessaria per responsabilizzare il decisore (regione, provincia o comune che sia) ad adottare deliberazioni rispondendone anche sotto il profilo finanziario e di bilancio.

 

Oggi invece le principali materie trasferibili rimarrebbero finanziate dallo stato centrale che trasferirebbe, tramite la finanza derivata, le risorse necessarie. Basti pensare che attualmente oltre il 70% della spesa sanitaria è coperta dall’Iva, le cui aliquote e la cui destinazione del gettito sono e rimarrebbero in capo allo Stato centrale. In secondo luogo manca il grande tema della Riforma del Testo unico delle Autonomie locali (Comuni, Province, Comunità montane, città metropolitane), questo davvero necessario se non vogliamo sostituire al centralismo statale un costoso e inefficiente centralismo regionale. Il Titolo V della Costituzione chiarisce, all’art. 118, che le funzioni amministrative sono attribuite in modo ordinario e fisiologico ai Comuni e con altrettanta chiarezza si afferma che “i comuni, le province e le città metropolitane sono titolari delle funzioni amministrative conferite con legge regionale secondo le rispettive competenze”. Eppure, quante funzioni di natura amministrativa le regioni si sono tenute per sé per ragioni non sempre di natura funzionale, quanto semmai per ragioni di consenso e di potere?

  

 

Infine: siamo ancora convinti, nell’epoca della competizione mondiale e delle sfide che abbiamo davanti che materie come l’istruzione, la ricerca scientifica, la produzione e il commercio della energia, il commercio con l’estero, le grandi reti di trasporto aereoportuali e navali possano essere frammentate in 21 legislazioni e competenze diverse? Così come invece si potrebbe concordare sul possibile trasferimento di materie previste (non con vincoli Lep) come la protezione civile, il governo del territorio o la valorizzazione dei beni culturali e ambientali. Appare quindi opportuno che centro destra e centro sinistra si mettano al tavolo per una ponderata riforma del Titolo V, per la promulgazione di una seria legislazione in materia di federalismo fiscale e per una non più rinviabile riforma delle Autonomie locali. Il nostro paese ha  bisogno di regole condivise e non può essere sottoposto ad un processo squilibrato destinato a ripercuotersi sui diritti e l’eguaglianza dei cittadini: nessuno vincerebbe ma tutti perderemmo in un quadro istituzionale delegittimato e rissoso.

  
Emilio Del Bono, vicepresidente del Consiglio regione Lombardia