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L'intervista

Mantovano: “L'Italia con Kyiv a prescindere da chi ci sarà in America. Pm contro il governo? Una constatazione”

Claudio Cerasa

“Oggi l’Europa deve ritrovare un ruolo concreto principalmente sui due scenari di crisi più grossi: l’Ucraina e il medio oriente”. Difesa, immigrazione, i ruoli dell'intelligence e il funzionamento della macchina della burocrazia. Parla il sottosegretario a Palazzo Chigi

Che fare con l’Ucraina, se dovesse succedere? Che fare in Europa, per provare a contare? Che fare con i migranti, per non giocare con la demagogia? Che fare con i magistrati ideologizzati, per provare a contenerli? Che fare con le minacce alla nostra sicurezza, per non farci trovare impreparati? Abbiamo passato una buona mattinata con Alfredo Mantovano, pezzo da novanta del governo, uomo forte di Palazzo Chigi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con deleghe sull’intelligence, e abbiamo passato un po’ di tempo con lui per ragionare attorno ad alcuni argomenti legati alla traiettoria del governo in Italia e in Europa, con tutte le difficoltà del caso. L’occasione è la Festa dell’ottimismo organizzata oggi a Firenze dal Foglio e con il sottosegretario – con cui abbiamo registrato un’intervista più lunga di quella che state per leggere e che verrà proiettata oggi alla Festa fogliante – proviamo a partire da qui: cosa può fare il governo, senza troppe chiacchiere, per provare ad aiutare l’Europa ad avere più fiducia nel futuro? “Oggi – ci dice Mantovano – l’Europa deve ritrovare un ruolo concreto principalmente sui due scenari di crisi più grossi: l’Ucraina e il medio oriente. Finora, questo ruolo non è stato propriamente attivo, ma di attesa rispetto a eventi che riguardano non il contesto europeo, a cominciare dall’esito delle elezioni negli Stati Uniti. L’Europa dovrebbe recitare la propria parte non ignorando importanti scadenze che riguardano potenze significative, penso ovviamente agli Stati Uniti, ma neanche dipendendone o mostrando di dipenderne in modo quasi totale. Questa è la sfida più difficile. Vi è una sfida che riguarda in particolare la propria capacità di superare gli ostacoli al proprio interno”. 


Giorni fa, ricordiamo ad Alfredo Mantovano, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha suggerito al governo, con parole chiare, di non legare la sua politica estera a ciò che succede in giro per il mondo. “Rimango sorpreso – ha detto Mattarella durante il discorso del Ventaglio – quando si dà notizia o si presume che vi possano essere posizionamenti a seconda di questo o quell’esito elettorale, come se la loro indubbia importanza dovesse condizionare anche le nostre scelte. Nessuno – vorrei presumere – ipotizza di conformare i propri orientamenti a seconda di quanto decidono elettori di altri paesi e non in base a quel che risponde al rispetto del nostro interesse nazionale e dei princìpi della nostra Costituzione. Questo vale sia per l’Italia sia per l’Unione europea”. Varrà anche per l’Italia? Molti osservatori – noi compresi – temono  che se dovesse vincere Trump, a novembre, qualcosa potrebbe cambiare nella nostra politica estera, a partire dalla difesa dell’Ucraina. E’ così? “Le rispondo provocatoriamente con un’analogia calcistica essendo io tifoso di una squadra di calcio sempre di bassa classifica, il Lecce, la squadra della mia città. L’analogia con l’Europa non è con la bassa classifica, diciamo che è con la media classifica nel mondo e le dico che sarebbe sbagliato adeguare le proprie performance alle campagne acquisti delle squadre di prima fascia o a quello che loro decidono di fare”. 


“L’Europa è un team che ha delle potenzialità enormi, anzitutto in termini di inventiva, di know-how solo se decide di non usarle in conflitto al proprio interno, ma invece per progetti comuni. Delle squadre di provincia nel campionato quelle che rendono meglio sono proprio quelle che confidano sulle proprie potenzialità e non sulle strategie, sulle tattiche delle altre squadre”. Quindi per restare nell’analogia: possiamo dire che sarebbe molto provinciale dover adattare un elemento chiave dell’identità di questo governo, per esempio un tema come la difesa dell’Ucraina, a quello che succederà in America? “Esattamente così e sarebbe anche sbagliato”. Pausa. “Vede, le scelte che l’Europa ha fatto finora non sono dipese da logiche di vicinanza alle grandi potenze, in particolare quelle che ha fatto l’Italia e che ha fatto questo governo. E lo stesso vale in prospettiva, anche perché poi i rapporti come la presidente Meloni ha sempre ribadito, sono rapporti tra nazioni. Poi ci può essere maggiore o minore sintonia con il leader del momento. Ma per esempio con il Regno Unito, nonostante l’ottimo rapporto che Giorgia Meloni aveva con Sunak, non è che le relazioni abbiano avuto un crollo di intensità, dal momento in cui alla guida del Regno Unito è arrivato il leader del Labour”. 


Su cosa andrà misurata la capacità dell’Italia di contare qualcosa nella nuova legislatura europea? “Intanto sul parlare una sola lingua in materia di migrazione. Le migrazioni sono una delle voci non l’unica ovviamente, ma una delle voci più significative dell’ordine del giorno, dei Consigli europei, dei primi ministri e non soltanto di loro, dei ministri dell’Interno. L’immigrazione si salda, se ben regolamentata, con il calo demografico con la necessità di manodopera qualificata in settori che non l’hanno più e quindi chiama in causa non soltanto delle regole comuni, ma anche resistere alla tentazione soprattutto tra i partner più importanti dell’Unione europea di fare qualche sgambetto al compagno di banco e anche di parlare lo stesso linguaggio, non soltanto quanto alle regole all’interno dell’Unione europea, ma anche quanto all’atteggiamento da avere con le aree da cui proviene il maggior numero di immigrati immaginando dei percorsi comuni, immaginando delle formazioni tendenzialmente comuni, cioè provare a parlare se si è veramente unione, un linguaggio non dico identico, ma abbastanza compatto”. Su questo tema, sempre il presidente della Repubblica, qualche giorno fa, in una visita di stato in Germania, ha offerto un altro spunto che le sottopongo.

Mattarella ha detto che, sul tema dell’immigrazione, “noi risolveremo il problema quando saremo stati capaci di organizzare in un modo come questo o in un modo simile a questo ingressi regolari per il bisogno di manodopera che ha l’Europa. Ma regolari. Autorizzati. Togliendo chi desidera di migrare dalle mani dei trafficanti di esseri umani”. Come si possono trasformare queste indicazioni in realtà? “Il punto di partenza, per orientarci intorno a questo tema, è che in questo momento la Germania pretende che l’Italia riceva, in restituzione, per così dire, migranti che sono passati dal nostro territorio e adesso sono nei confini tedeschi. La Francia lo fa abitualmente, non ci sono linguaggi comuni con i paesi d’origine. Allora questo è il punto di partenza. Il punto di arrivo è esattamente quello che descrive il capo dello stato e noi stiamo muovendo dei passi concreti non declamati in questa direzione. Proprio in questi giorni in Algeria e in Cirenaica comincia la semina di legumi, di frumento e di grano in virtù di un accordo tra i governi italiano e algerino e italiano e la parte libica che fa capo a Bengasi, che vede come terzo soggetto agente Bonifiche Ferraresi ci sono 36 mila ettari coltivati in Algeria, 5 mila con la prospettiva di diventare 10 mila in Cirenaica, i prodotti rimarranno sul territorio, la manodopera è locale, con un importante investimento da parte del governo italiano. Si dirà: per arrivare a quale risultato? Oltre che, diciamo, l’immediata ricaduta concreta sulle popolazioni algerine e libica, la questione è evidente: trasmettere il messaggio che ci sono delle opportunità nei luoghi visti come esclusivamente di partenza dell’emigrazione, per cui c’è la possibilità di rimanere, di lavorare, di avere una remunerazione dignitosa con prodotti che restano sul territorio.

Se però l’intento del cittadino di queste nazioni è di venire in Europa e in Italia, l’alternativa è il decreto Flussi, non è la partenza irregolare. E’ in corso in virtù del decreto Flussi di un anno fa una programmazione triennale per 450 mila unità, quindi non stiamo parlando di poche unità, con l’ipotesi di fuori quota per chi frequenta un corso di formazione nel paese d’origine che sia ovviamente certificato che abbia un livello uno standard minimo di serietà certificato dall’Italia e anche questo sta suscitando molto interesse, il decreto legge che noi abbiamo varato qualche giorno fa in uno degli ultimi Consigli dei ministri punta a evitare aggiramenti nelle norme sugli ingressi regolari e quindi a far sì che se abbiamo un obiettivo di quasi mezzo milione questo obiettivo sia raggiunto dalle aziende italiane e non dalla camorra che fa entrare legalmente e che poi indirizza verso il lavoro nero”.

 

                        


Una delle prerogative del sottosegretario della presidenza del Consiglio è la gestione dell’intelligence, di cui Mantovano ha la delega. Negli ultimi anni sappiamo che l’intelligence economica è diventata centrale nell’attività di monitoraggio. Attraverso i segnali raccolti dall’intelligence, in questi anni, è possibile misurare quanto il nostro paese è stato esposto agli attacchi dei paesi che in questo momento stanno aggredendo le democrazie in giro per il mondo? “Oggi l’intelligence svolge ruoli importanti perlomeno su tre fronti. Il primo è quello di vigilare su presenze ostili verso materie di interesse strategico per l’Italia e in qualche modo per l’Europa e qui lo strumento rispetto al quale l’intelligence svolge un ruolo, uno degli strumenti di intervento, è il cosiddetto golden power. La seconda linea di intervento è facilitare in qualche modo, con criteri di assoluta legalità, ma in termini di know-how, in termini di rete di relazioni, la presenza delle aziende italiane su mercati finora poco esplorati. La terza, visto che operiamo sempre più in un mondo pieno di sanzioni sul piano economico, evitare aggiramenti di queste sanzioni che sono abbastanza frequenti, quantomeno per tentativi, attraverso una serie di schermature, mi paiono dei ruoli oggi importanti. Sul fronte degli attacchi cyber, possiamo dire che questi negli ultimi anni sono aumentati a dismisura. Molti di questi sono riconducibili ad agenti vicini alla Russia e anche a simpatizzanti non necessariamente collegati, giovani hacker che sentono molto le suggestioni dei messaggi provenienti da Mosca. Questi attacchi sono collegati strettamente all’Ucraina e ancor di più dopo il 7 ottobre anche alla crisi in medio oriente. Non soltanto perché sono aumentati di intensità, ma perché in più di un caso vi è stata una coincidenza tra eventi significativi. Ve ne racconto uno: per esempio nel corso di una visita in Italia di Zelensky mentre l’aereo di Zelensky metteva le proprie ruote su Ciampino, alcuni siti istituzionali, anche significativi, sono stati messi sotto attacco, e quindi il collegamento c’è”.

 

                     

 

Vale lo stesso per l’Iran? Vi sono stati attacchi in Italia riconducibili a quell’area? “Ce ne sono stati vari, certamente di provenienza da soggetti ostili di quell’area, ma soprattutto da simpatizzanti. La figura dell’hacker è normalmente la figura di un isolato che vive molto a casa sua davanti a svariati pc e che ne trae suggestioni quindi non c’è necessariamente, c’è in alcuni alcuni casi, ma non c’è necessariamente un piano strategico di attacco. C’è anche una rete di volontari che riceve dei messaggi un po’ sul modello del terrorismo di matrice islamica, li raccoglie e poi li traduce in qualcosa di operativo che può fare anche molto male, perché quando si attacca, come è capitato per esempio per la Vanvitelli a Napoli, un’azienda ospedaliera mentre sono in corso esami di Tac, interventi operatori eccetera i danni sono importanti”. E sul fronte economico? Che impatto hanno avuto i conflitti per esempio nell’utilizzo di uno strumento delicato come il Golden Power? “I numeri che abbiamo indicano una maggiore sensibilità verso l’attivazione di questo strumento per alcune ragioni precise: vi sono ipotesi di interferenze superiori rispetto al passato. Diciamo che vi è una tendenza che come presidenza del Consiglio proviamo a disciplinare e a contenere, a utilizzare questo strumento oltre ai suoi confini tradizionali o comunque i confini per i quali è stato immaginato. Il ruolo del golden power è evitare che su materie di interesse strategico ci sia l’incidenza di soggetti non necessariamente ostili, ma che vanno in una direzione diversa da quella che è l’interesse nazionale, ovviamente in un quadro di normativa europea. Ma il golden power, per essere molto concreti, non è lo strumento che può essere utilizzato per affrontare crisi occupazionali. Se un’azienda che ha una partecipazione di soggetti esteri in Italia ha l’esigenza di ridurre il personale, il tavolo di contrattazione è quello delle parti sociali, si incontrano il datore di lavoro, i sindacati e, se necessario, il governo. E all’insegna di queste linee guida, i numeri credo che siano rassicuranti per qualunque investitore estero. Nel 2023 ci sono stati 727 procedimenti avviati, ma soltanto 30 si sono tradotti in provvedimenti e di questi 30 soltanto due sono stati provvedimenti di veto rispetto all’operazione richiesta e 28 invece sono state prescrizioni. Spesso le aziende, conoscendo queste dinamiche, pongono esse stesse degli impegni di cui poi la struttura del golden power e il Consiglio dei ministri ratificano, prendono atto e nel 2024 i dati disponibili  al 31 agosto: ci sono stati 538 procedimenti, 23 provvedimenti e di questi solo uno di veto”. 


Quando si parla di buon funzionamento della macchina del paese oltre al tema dell’interesse nazionale occorre mettere a fuoco inevitabilmente un tema più generale che riguarda il sempre eterno problema legato al funzionamento della burocrazia. Il sottosegretario Mantovano ha avuto spesso modo di intervenire su questo tema, anche proponendo dei sistemi di semplificazione del rapporto tra potere esecutivo e potere burocratico per così dire. Oggi, da Palazzo Chigi, in che misura la burocrazia italiana rappresenta un freno per l’azione del governo? “Tutto potrebbe andare più veloce. Il fatto che purtroppo in molti casi siamo costretti di fronte non soltanto a emergenze ma anche a scenari che richiedono un intervento immediato, a ricorrere alla nomina del commissario straordinario o a ricorrere alla legislazione in deroga è la denuncia più evidente che l’ordinarietà della macchina burocratica non garantisce risultati. Questo esige una riforma della Pubblica amministrazione su cui sta lavorando il ministro Zangrillo e su cui poi sarà impegnato l’intero governo, esige una dialettica seria, non demonizzante né da una parte né dall’altra con le varie giurisdizioni, non soltanto quella ordinaria ma anche quella amministrativa e quella contabile senza nascondere i problemi. Per esempio, quando ascolto qualche alto magistrato contabile che nega che esista la paura della firma mi viene da dire che ahimè esiste, eccome se esiste. Spesso è la paura delle firme, perché su un provvedimento chi mette la penultima esige che ce ne siano di precedenti e questo rallenta enormemente. Quindi insieme a un restyling normativo che faccia tesoro di alcune esperienze recenti, alcune norme in deroga per esempio potrebbero essere riprese e se non hanno prodotto effetti negativi sul piano del rispetto delle leggi diventare ordinarie, però esige soprattutto un cambio di mentalità che è la cosa più difficile in assoluto”.


Mantovano è un magistrato. Da magistrato non possiamo chiedere se in questi due anni di governo non abbia avvertito la presenza di una magistratura ideologizzata desiderosa di mettere un freno all’azione di governo o addirittura desiderosa di portare avanti battaglie esplicite contro il governo. Mantovano ha avuto questa impressione? “Non è tanto un’impressione, è una constatazione. Quando per esempio nella disciplina dei migranti un giudice dice e scrive nei provvedimenti che deve essere il giudice l’arbitro della decisione dei paesi cosiddetti sicuri, cioè nei paesi verso i quali può avvenire il rimpatrio dei migranti pervenuti illegalmente, mi pare che sia un’entrata a piedi uniti in un’area che non è la propria, perché la determinazione dei paesi sicuri viene fuori da un procedimento abbastanza complesso che spetta al governo. E’ un esempio, fra i tanti ce ne potrebbero essere tanti altri”. Ottimisti su tutto, o quasi, ma sui magistrati ideologizzati forse no. Ci vediamo alla Festa dell’ottimismo. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.