editoriali
La sinistra è rimasta senza autonomia
Il referendum era l’unica cosa che teneva insieme Pd, Renzi e M5s. E ora che si fa?
La decisione della consulta di non ammettere il referendum sulle autonomie sta certamente provocando dei guai nella maggioranza di governo, specie tra la Lega e Forza Italia. Ma guai ben superiori, questa bocciatura, li comporta alle forze di opposizione che si vorrebbero unite in un progetto politico ma che, per varie ragioni, non riescono nemmeno a dare l’impressione di marciare insieme. Se c’era un argomento sul proscenio politico italiano che teneva invece insieme, sotto una unica bandiera, Elly Schlein, Matteo Renzi e Giuseppe Conte, questo era proprio il referendum sull’autonomia. Che si sarebbe qualificato, non diversamente da come sarebbe un referendum sulla riforma del premierato, come la grande battaglia contro Salvini, contro la Lega e contro la maggioranza che – secondo l’espressione comune usata dal Pd, da Iv e anche dai 5 stelle, “vuole spaccare il paese”. Ma non sarà così.
La Corte costituzionale più che frustrare le ambizioni di Salvini (il quale non aveva alcun interesse alla riforma dell’autonomia e si è anzi sempre dimostrato freddissimo a differenza dei governatori leghisti) ha dato un colpo ferale alle ambizioni unitarie del centrosinistra che viaggia diviso su ogni argomento, dall’economia all’ambiente. Ma c’è persino di più. Anzi di peggio. La Corte costituzionale ha cancellato la bandiera unitaria dell’autonomia ma ha invece confermato il referendum sul Jobs Act. E insomma il referendum che si terrà è proprio quello che evidenzia, rende fosforescenti e inoccultabili, le distanze tra i partiti dell’opposizione. I quali su questo referendum si contorceranno e spaccheranno ulteriormente tra loro e persino al loro interno. Il partito di Renzi difenderà il provvedimento voluto dal suo leader ai tempi in cui era premier e segretario del Pd. E il Pd stesso si dividerà al suo interno tra la nuova e maggioritaria linea di Schlein e le posizioni minoritarie ma non del tutto dome dei cosiddetti riformisti. E comunque dei tantissimi (in realtà, ai tempi: tutti) che quel provvedimento sul mercato del lavoro lo votarono.