Gualtiero Jacopetti

Redazione

È un carnivoro, Jacopetti. A pranzo ha ordinato cotoletta alla milanese, con l'osso. A cena bistecca, al sangue. “Le cene sono la cosa più penosa”, mi sussurra all'orecchio entrando al ristorante con il tono rassegnato di chi mal sopporta i percorsi obbligati. Nella Cineteca di Milano lì accanto, intanto, si proietta, a oltre quarant'anni dalla prima, il suo “Mondo cane”, il primo dei documentari shock che lo hanno reso famoso.

Di Stefania Micaela Vitulli

    È un carnivoro, Jacopetti. A pranzo ha ordinato cotoletta alla milanese, con l'osso. A cena bistecca, al sangue. “Le cene sono la cosa più penosa”, mi sussurra all'orecchio entrando al ristorante con il tono rassegnato di chi mal sopporta i percorsi obbligati. Nella Cineteca di Milano lì accanto, intanto, si proietta, a oltre quarant'anni dalla prima, il suo “Mondo cane”, il primo dei documentari shock che lo hanno reso famoso. Forse avrebbe preferito starsene nel buio a spiare le reazioni del pubblico che faceva la coda al freddo, un omaggio che lo ha sinceramente stupito. Come alla prima del 1962, sempre a Milano, ma al cinema Manzoni: si aggirava in incognito nei corridoi accanto alle poltrone, incerto sull'esito.

    Nemmeno sui gusti alimentari è cambiato di molto
    : nel 1967, a una festa della dolce vita romana, “apparve con la camicia alla Ciceruacchio e, in atto di esploratore permanente, si fece portare un pollo, su cui si avventò con voluttà cannibalesca”, ricorda Vincenzo Talarico ne “I passi perduti”. Un carnivoro gentiluomo, in ogni caso, classe 1919: apre le portiere alle signore, insiste per far da ospite e misconosce i meccanismi della seduzione effimera: “Se una donna si spoglia in pubblico di solito mi viene voglia di metterle addosso un cappotto. Di certo non le mani”. Sarà questo uso di mondo che ha fatto innamorare le femmine splendide che hanno calcato accanto a lui le scene dei rotocalchi a partire dagli anni Cinquanta, quando doveva la fama a “Ierioggi- domani” ed “Europeo Ciak”, i suoi cinegiornali, in cui commento pungente e montaggio smaliziato hanno precorso tutte le “Strisce” a venire. In quei cinegiornali c'era la voglia di svelare un certo costume italiano scaduto e pomposo, di castigare il cattivo gusto: “Era un lavoro duro e carbonaro, portato a termine da una fronda allegra. Grazie al montaggio, facevo posare ai cardinali la prima pietra sette o otto volte oppure incaricavo un attrezzista di sostituire a Fanfani le forbici del taglio del nastro e poi filmavo quel che restava della cerimonia di inaugurazione: le forbici non tagliavano e l'imbarazzo era alle stelle”.

    Giornalista nato come si nasce curiosi, bello come un eroe greco,
    intelligente, presto anche ricco e senza nessuna voglia di farsi perdonare le sue doti, Jacopetti non si è mai limitato a indicare col dito i punti vulnerabili al ridicolo della nostra Italietta. Sui luoghi del delitto, o del piacere, si è sempre recato a proprio rischio, con un solo imperativo categorico: “Andare a vedere”. E assaporare il gusto del cimento, le sensazioni di contrabbando, anche quando stringono le budella come gliele strinsero da bambino le prime boccate notturne dalla pipa del nonno: “Stetti così male che passai il resto della notte a pancia sotto sulle piastrelle fredde per provare un poco di sollievo. E mi venne la bronchite”. Ma provare, rischiare, partire sono per lui stimoli più forti di tutto: appena comincia sulla lavagna del liceo, a Viareggio, a scrivere per una classe distratta la cronaca della guerra, gli viene già voglia di viverla. “Partii volontario a diciotto anni, non per fascismo, ma perché mi sembrava mio dovere”.

    Parte convinto di andare a vedere l'Africa che sognava da bambino. Invece lo sbarcano a Durazzo, vestito da coloniale e con trenta gradi sotto zero. Ma non riescono a farlo pentire. Si fa la guerra di Grecia e tutte le sconfitte italiane e, dopo il corso allievi ufficiali a Moncalieri, raggiunge la Russia in tempo per la madre di tutte le ritirate: cinquemila chilometri a piedi. L'8 settembre torna dalla Costa Azzurra su un treno merci rubato a Ventimiglia e prima del 25 aprile fa in tempo a discendere verso la natìa Toscana, a rinunciare a farsi partigiano e a essere infine paracadutato, come ufficiale di collegamento della Quinta armata, su Milano. Effettua ricognizioni in jeep, per sottrarre i fascisti al linciaggio e condurli a San Vittore, al cimitero Maggiore, capita davanti ai cadaveri di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. “Io divido metaforicamente i momenti della storia umana in Anteguerra e Dopoguerra. Come dire, un periodo tranquillo, poi uno scossone, poi tutto ricomincia. Come in ‘Prova d'orchestra' di Fellini. Quello che stiamo vivendo ora è un lunghissimo Dopoguerra appiattito, un ordine di sopravvivenza. Oggi ho preso la metropolitana alla Stazione centrale: lo stesso vomitorium di gente stanca e abbruttita che si vede nelle metropolitane di tutto il mondo. Quando arrivai a Milano il 18 aprile del '45, le facce erano diverse…”.

    Ma l'anno cruciale per lo Jacopetti giornalista fu il Quarantotto.
    Appena sceso dal monumento di piazza del Duomo, su cui aveva improvvisato un comizio a sostegno della Dc, lo avvicinano “due tipi curiosi. Uno piccolo e irrequieto. L'altro secco e allampanato, con la faccia lunga”. Longanesi e Montanelli. Da quel momento “l'allampanato” sarà suo amico per la vita. Con Indro, Jacopetti condividerà le vacanze a Cortina o a Torre del Lago, la spalla su cui piangere per gli amori finiti male, i cori di canzonacce toscane e la razza toscana che si fa filosofia di vita “anche se lui l'addomesticava un po'”. Quel giugno, poi, a Forte dei Marmi, a metà tra il bagnasciuga e la Capannina, tocca a Jacopetti avvisare un tenebroso signore impegnato in una posizione capovolta dello yoga che “uno dei suoi due attributi s'era fatto largo da un orlo del costume e penzolava candido e solitario sulla lana nera”. Curzio Malaparte si risistema e ringrazia, elargendo un consiglio senza prezzo, che Jacopetti non ha mai smesso di seguire: “Gli uomini di oggi sono senza coglioni. Lei è ancora un ragazzo, ma se li ha si affretti a mostrarli. Sono una rarità”.

    Non si può dire che Jacopetti non gli abbia dato retta
    : entra al Corriere della Sera e grazie a Montanelli (“vai subito in qualunque parte dove sta succedendo qualcosa. Torna, scrivi e vieni da me”) entra a far parte di quella irripetibile squadra di cronisti e inviati, Piovene e Corradi, Vergani e Buzzati, che fanno del reportage un genere letterario. Incontra Hemingway. Diradato il mito, calano spessi i fumi dell'alcol: “Si scolò dodici martini secchi uno dopo l'altro, ma il martini in realtà levitava appena per qualche attimo sopra i bicchieri colmi di gin. E a pranzo, due bottiglie di vino. Né lui né noi capimmo nulla di quel che ci disse. Fu una delle prime volte in cui si fece strada in me la certezza che è meglio non conoscere chi abbiamo sempre ammirato da lontano. Si viene irrimediabilmente delusi”. Jacopetti non ama parlare di sé e va fiero della borghese riservatezza che deriva dalla sua educazione: “Parlar di sé solo per parlarne è come andare al Maurizio Costanzo Show senza avere un libro da presentare. Non ci si guadagna nulla se non l'apparire”.

    Comincia appena a svelare timide emozioni quando si crea quella complicità che s'improvvisa dopo una minima frequentazione. Così, quando pronuncia il nome della testata Cronache, il giornale che fondò dopo essere uscito dalla Settimana Incom, la voce un po' s'incrina nel rimpianto. Dovette dimettersi e farselo soffiare da Arrigo Benedetti, quel giornale, che poi cambia nome e diventa L'Espresso. Ci è proprio costretto, il giorno in cui diviene il personaggio numero uno della cronaca nazionale per l'episodio della “zingarella”, la tredicenne Jolanda Kaldaras che viene accusato d'aver insidiato, in compagnia di un amico e di una dama misteriosa, in una boccaccesca notte romana. Il pasticciaccio tra il rosa e il noir mette a gran banchetto la stampa e lo vede, a trentasei anni, finire agli arresti e poi, contro il parere degli avvocati, sull'altare per la prima e unica volta nella sua vita, per un matrimonio riparatore annullato quasi dieci anni dopo. “Tutti pensavano che io avessi un gran successo con le donne, ma non è mai stata la mia ‘attività', non sono un farfallone. E sono anche monogamo, un uomo di una profonda passione per volta”. La più profonda di tutte per Belinda Lee, a cui Jacopetti chiede di smettere di fare l'attrice perché la considera sua moglie e “quando una donna è sposata non può fare del cinema”.

    Belinda è Penelope che sa attendere senza drammatizzare,
    confortare il compagno di nuovo in carcere a Hong Kong perché sorpreso in compagnia di due prostitute bambine, seguire la troupe alle cinque del mattino per girare i chilometri di pellicola che allargano i confini della provocazione di Jacopetti nei cinque continenti e servono a montare “Mondo cane”, “La donna nel mondo” e “Mondo cane 2”, usciti a un anno di distanza uno dall'altro a partire dal 1961. Ma Belinda non potrà condividerne il successo: alle due di un pomeriggio assolato, sulla strada tra Las Vegas e Los Angeles, viaggia in auto a fianco di un italoamericano dall'acceleratore facile. Gualtiero è seduto dietro. La macchina capotta sette volte. Belinda è sbalzata fuori. Nello sforzo di trattenerla, il braccio di Gualtiero si sloga completamente e per un anno crede di averlo perduto. Dovrà anche disintossicarsi dal trattamento antidolorifico che lo ha reso morfinomane. Né la morfina né gli anni sono riusciti a cancellare il ricordo di Belinda: al cimitero degli Inglesi a Roma, la tomba accanto alla sua è prenotata da Jacopetti con una richiesta di autorizzazione cui chiese, ai tempi, una risposta “cortese e sollecita, perché non si sa mai”.

    Possidenti terrieri, gli Jacopetti, con qualche ambizione finanziaria.
    Il nonno aveva un abbozzo di banca nella zona, da cui il padre di Gualtiero parte per dare vita alla Banca Jacopetti, con sede a Viareggio e a Firenze. Ma gli va male, fallisce e la famiglia rimane senza un soldo. Una famiglia Jacopetti esiste anche ora, sebbene divisa: nel 1963 Danièle Savette, figlia di un diplomatico francese, dà a Gualtiero una bambina, Christine, che ora vive in Inghilterra e lo ha reso nonno di due nipotini. Ma anche papà Gualtiero le ha donato qualcosa di unico: curiosità e gusto per l'inquadratura. Christine è fotografa e nel suo book figurano gli scatti d'arte fatti all'inizio degli anni 90 per Franco Maria Ricci. Da buon carnivoro, Jacopetti ha sempre annusato la preda prima degli altri: ha precorso il realismo televisivo e persino l'ecologismo e ha sempre provocato reazioni estreme. “Campare così” per lui significa equipaggiarsi per la prima linea. Come accade nel 1966 per “Africa addio”, dedicato alla fine dell'Africa incontaminata e all'abbandono del Continente nero da parte degli europei, definito da Dino Buzzati “una purga di rara energia, sebbene, volontariamente o no, razzista”.

    Il film gli vale in Italia una denuncia per concorso in triplice omicidio
    a seguito di un pezzo dell'Espresso a firma Carlo Gregoretti che lo accusa d'aver pilotato un'esecuzione di neri mulelisti allo scopo di poterla filmare, in Francia la censura di de Gaulle e a Berlino Ovest la temporanea sospensione delle proiezioni per tumulti nelle sale. Jacopetti va ovunque a difendere il film. In una conferenza stampa a Berlino c'è un giovane nero, “tutto bellino, tutto elegante, al quale avevano dato il posto più comodo, proprio di fronte a me. A un certo momento notai che quando parlava stavano tutti zitti e, anzi, accettavano di essere interrotti. Gli chiesi se era figlio di qualche ministro. ‘Come lo sa?'. ‘Lo immagino'. Allora sbottai: ‘Scusate signori, qui siamo a un tavolo di razzisti. Me ne vado. E per sua consolazione l'avverto che esistono anche dei neri cretini, come lei'”.

    Quel film nasce da un piccolo fatto privato
    : Jacopetti riceve dall'amica Carolina Ponsomby, figlia di coloni della borghesia inglese di ritorno in Africa dopo tre anni di assenza, una lunga missiva sul violento cambiamento in atto. Lo prega, tra l'altro, di non recarsi sul luogo, poiché il rischio per i bianchi era grande. Non avrebbe potuto escogitare un invito più forte. Ritornò dopo tre anni e mezzo, duecentomila chilometri percorsi, centoventimila metri di girato e un carico inestimabile di ricordi. Le sue apparizioni in televisione si contano sulla punta delle dita. Tra queste, un'intervista di Mike Bongiorno agli albori del piccolo schermo. Anche se negli anni 80 Silvio Berlusconi lo conduce personalmente a vedere gli studi di Cologno Monzese, con il progetto di affidargli un ruolo direttivo, ma “non sono mai riuscito a essere gradito a tutti”. Eppure, negli ultimi dieci anni, il mondo ha cercato Jacopetti e lui non si è negato: gli dedicano retrospettive, tesi universitarie, ripropongono i suoi film in dvd.

    Niente di tutto questo è made in Italy
    : il paese in cui ha lavorato di più negli ultimi anni, per il cinema e per la pubblicità, è il Giappone: “Mi piace il Giappone. Gente che si tuffa nel Medioevo la sera, a riflettere davanti a un sasso, e risorge la mattina con la cravatta davanti a un computer. Quando sono lì mi sento più in pace con me stesso, più pulito dentro”. Quando gli chiedono perché non gira più documentari, lamenta che qui non c'è più nulla da filmare. “Veramente ci sarebbe Marte. Se me lo chiedessero, accetterei. Tanto di qualcosa bisogna morire, no?”. Anche sui gusti extraterrestri non è cambiato: cinquant'anni fa disse d'aver visto i dischi volanti e Buzzati lo convinse a scriverci un pezzo. Carnivoro, gentiluomo e cosmonauta.

    Di Stefania Micaela Vitulli


    Gualtiero Jacopetti è nato a Barga (Lucca) nel 1919. Volontario durante la guerra, nel 1945 approda a Milano. Diviene amico di Montanelli e Longanesi, entra nel mondo del giornalismo. Curioso e soprattutto irriverente, negli anni 50 raggiunge il successo reinventando lo stile dei cinegiornali, Ieri-oggi-domani, Europeo Ciak, la Settimana Incom. Nel 1961 il suo primo documentario per il grande schermo, “Mondo cane”, è uno scandalo internazionale. Bissato l'anno seguente da “Mondo cane 2” e, nel 1966, da “Africa addio”.

    Stefania Micaela Vitulli, milanese, si occupa di comunicazione, collabora con l'Università Cattolica e scrive.