Osama bin Laden

Redazione

Osama bin Laden è oggi il più famigerato terrorista del mondo. La sua rete, chiamata Al Quaeda, la Base, si estende dalle Filippine al Pakistan, dal Kosovo al Kashmir, dalla Somalia al Tajikistan. E, come dice un ex ufficiale della Cia, “basta andare nei campi profughi sparsi per il Pakistan per vedere quanti bambini maschi portano il nome di Osama”.

    Osama bin Laden è oggi il più famigerato terrorista del mondo. La sua rete, chiamata Al Quaeda, la Base, si estende dalle Filippine al Pakistan, dal Kosovo al Kashmir, dalla Somalia al Tajikistan. E, come dice un ex ufficiale della Cia, “basta andare nei campi profughi sparsi per il Pakistan per vedere quanti bambini maschi portano il nome di Osama”. I pochi giornalisti occidentali ammessi al cospetto di Bin Laden attestano il suo carisma personale. Nel 1993, il giornalista britannico Robert Fisk, che l'aveva incontrato in Sudan, scriveva ammirato: “Con quegli zigomi pronunciati, gli occhi sottili e il lungo abito marrone, il signor Bin Laden è il ritratto perfetto del guerriero della montagna della leggenda mujaheddin. Fanciulle avvolte nel chador danzavano dinnanzi a lui, la sua saggezza viene riconosciuta dai predicatori”. Il reporter della Abc John Miller rievoca il drammatico arrivo di Bin Laden al suo accampamento militare in cima a una montagna dell'Afghanistan meridionale: “Nel campo si udiva il rombo dei generatori. C'era un odore denso di carburante nell'aria… Proprio in quell'istante, fu esploso un colpo di cannone. Il convoglio di Bin Laden era arrivato. In mezzo al frastuono dell'artiglieria, lui avanzava rapido, circondato da sette guardie del corpo. Tutti brandivano un AK-47. Lanciavano occhiate in ogni direzione in cerca di potenziali aggressori. Bin Laden, con il suo semplice turbante bianco e la lunga barba corvina, con il suo metro e novanta torreggiava sugli altri del gruppo. Nonostante il caos, i suoi occhi avevano uno sguardo tranquillo, fermo e concentrato”.

    Il messaggio che Bin Laden comunica nelle sue interviste con giornalisti occidentali è semplice. “Abbiamo dichiarato la jihad contro gli Stati Uniti perché il governo statunitense è iniquo, criminale e dispotico. Siamo convinti che oggi i peggiori predoni del mondo e i peggiori terroristi siano gli americani. L'America ha condotto una crociata contro la nazione islamica per sostenere i piani ebraici e sionisti di espansione in Israele”. Bin Laden è particolarmente irritato dalla presenza di forze militari degli Stati Uniti in Arabia Saudita, considerata terra santa dai fedeli islamici: “Il paese dei due Luoghi Santi occupa un posto assolutamente speciale nella nostra fede. Per la nostra religione non è ammissibile che dei non musulmani si trattengano sul suolo del nostro paese. Gli americani hanno agito con inaudita stupidità. Hanno attaccato l'Islam e i suoi simboli più sacri, depredano la nostra ricchezza, le nostre risorse naturali, il nostro petrolio. La nostra religione è minacciata”. Parole terribili, che lo sceicco pronuncia con voce tranquilla, monotona, in arabo, inframmezzata da frequenti riferimenti devoti alla grazia e alla gloria di Allah. “La voce di Bin Laden è morbida e piuttosto acuta, dal timbro leggermente stridulo che gli conferisce l'aria di un vecchio zio intento a dispensare buoni consigli”, racconta ancora il testimonereporter John Miller. Bin Laden non alza mai la voce, e ad ascoltare le sue risposte non tradotte si ha quasi l'impressione che stia parlando di qualcosa che non lo riguarda da vicino. Non sorride, guarda in basso, fissa il palmo delle mani, come se stesse leggendo invisibili appunti. Alla fine dell'intervista, Miller aveva chiesto all'interprete cosa avesse detto Bin Laden: “Mentre ti guardava dritto in faccia, e tu annuivi, ti stava dicendo che voi – voi, americani – ve ne andrete via dal Medio Oriente, chiusi dentro tante bare”. La calma di Bin Laden deriva dalla sua intensa fede religiosa. Come dice egli stesso, “Allah ci ha creato per adorarlo, per seguire le sue orme ed essere guidati dal Suo Libro. Io sono uno dei servi di Allah e obbedisco ai suoi ordini. Tra questi c'è l'ordine di combattere per la parola di Allah”. Dopo aver trascorso una giornata con Bin Laden, Abdul Atwan, direttore di un quotidiano arabo con sede a Londra, ha scritto: “Ho intensamente avvertito il suo fascino, ho avuto modo di osservare i suoi modi raffinati e la sua sincera modestia; è un uomo che cerca l'Aldilà e sente veramente di aver vissuto più di quanto non fosse necessario. Si avverte una gran tristezza in lui – un'amarezza non espressa – per non aver ricevuto il martirio mentre lottava contro i sovietici”. Bin Laden ha subito l'influenza delle profonde convinzioni religiose del suo autoritario padre. Osama è il settimo dei cinquantaquattro figli di Mohammed bin Laden, fondatore della maggiore impresa edilizia dell'Arabia Saudita e uno degli uomini più ricchi del paese.

    Bin Laden ha costruito le residenze reali saudite e stretto rapporti di intima amicizia con i sovrani che si succedevano sul trono, diventando persino ministro dei Lavori pubblici. La famiglia reale saudita ha concesso al gruppo di Bin Laden diritti esclusivi su tutte le opere edilizie di carattere religioso in Arabia Saudita, tra le quali la costruzione di moschee e il restauro dei tre santuari più importanti dell'Islam, le moschee della Mecca, di Medina e quella della Roccia a Gerusalemme. Un contratto che, come è facile immaginare, ha costituito motivo di immenso orgoglio per la famiglia e le ha inoltre consentito di fondare un impero industriale e finanziario notevole, e non soltanto per il mondo arabo. Mohammed bin Laden ospitava centinaia di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo durante la stagione dello Hajj, ha sempre dimostrato ai suoi figli come assumersi le responsabilità di ogni buon musulmano. Fece in modo di tenere tutti i figli in un'unica residenza. Imponeva loro una disciplina ferrea, scrupolosamente basata su un rigido codice religioso e sociale. Trattava i suoi figli come adulti e pretendeva che mostrassero una grande fiducia in se stessi sin dalla più tenera età. Era molto attento a trattare i suoi figli tutti allo stesso modo, senza mostrare alcun favore particolare per nessuno. Poi Mohammed bin Laden muore, in un disastro aereo nel 1968, quando Osama ha poco più di dieci anni. Mentre i fratelli assumono la conduzione degli affari di famiglia, stringendo legami anche con la generazione successiva della monarchia saudita, il piccolo Osama studia economia e cultura islamica a Gedda. A diciassette anni sposa una ragazza siriana, imparentata con la sua famiglia. Un suo compagno di quei tempi spiega: “Osama è stato allevato nel rispetto assoluto dei principi religiosi e il matrimonio precoce ha costituito un ulteriore fattore che lo ha preservato dalla corruzione”. In seguito Bin Laden ha sposato altre tre mogli, e ha messo al mondo un totale di cinque figli. Negli anni della sua formazione e della giovinezza trascorsa in patria, Osama è tutt'altro che un radicale. A trasformarlo in un leader fondamentalista sono stati i campi di battaglia dell'Afghanistan.

    Quei monti insanguinati dalla guerra contro l'invasore sovietico che come lui, e assieme a lui, hanno trasformato in guerriglieri e potenziali terroristi tutta una generazione di giovani musulmani di ogni nazione, dall'Algeria al Pakistan. L'invasione sovietica dell'Afghanistan nel 1979 è lo shock formativo di un'intera generazione di giovani islamici. Bin Laden all'epoca ha ventidue anni e non ha mai messo piede fuori dal Medio Oriente. Eppure, a sole due settimane dall'invasione dell'Armata Rossa, si reca in Pakistan per parlare con i profughi afghani e incontrare i leader della resistenza dei mujaheddin. Nei lunghi anni del conflitto diviene uno dei più attivi raccoglitori di fondi a favore degli afghani, sfruttando le relazioni della sua influente famiglia per coinvolgere le persone più ricche e potenti dell'Arabia Saudita. Organizza, finanzia e invia in Afghanistan migliaia di giovani combattenti volontari dall'Algeria, dalla Tunisia, dal Libano; fornisce armi e centinaia di tonnellate di attrezzature per costruzioni. Al fianco dei suoi ingegneri, Bin Laden ha fatto saltare cariche esplosive per scavare gigantesche gallerie attraverso le aspre montagne afghane, ha tracciato strade e scavato trincee per i guerriglieri, ha manovrato personalmente i bulldozer davanti alle linee di combattimento. E si è lanciato egli stesso in battaglia, ha partecipato a numerosi scontri, tra i quali la furiosa battaglia di Jalalabad, che provocò la ritirata finale delle truppe sovietiche dal territorio afghano. A un reporter occidentale che più tardi gli domandò se avesse avuto paura, Bin Laden rispose con calma: “No, non ho mai avuto paura della morte. In quanto musulmani, noi crediamo che quando moriremo andremo in paradiso. Prima di ogni battaglia, Iddio ci infonde tranquillità. Una volta ero a soli trenta metri dai russi e loro hanno tentato di catturarmi. Sotto i bombardamenti ero così tranquillo nel profondo del cuore che riuscivo a prender sonno. Ho visto atterrare una granata di mortaio da 120 millimetri proprio di fronte a me, ma non è esplosa. Hanno sganciato altre quattro bombe da un aereo russo, ma non sono esplose. Abbiamo sconfitto l'Unione Sovietica. I russi si sono dati alla fuga”. Con il ritiro delle truppe sovietiche nel 1989, Bin Laden è ritornato in Arabia Saudita, dove è stato accolto come un eroe. Ma la sua vita era ormai profondamente cambiata.

    In Afghanistan aveva visto con i suoi occhi che persino una superpotenza può essere sconfitta da poche migliaia di guerrieri che credono fermamente nella loro causa. Questa lezione è stata per lui un'autentica rivelazione: “Dopo la nostra vittoria in Afghanistan, dopo la sconfitta Osama bin Laden, la vocazione al paradiso del bulldozer di Allah Sukumar Periwal degli oppressori che avevano ucciso a migliaia i musulmani, è svanita la leggenda dell'invincibilità delle superpotenze. Ho tratto tali benefici dalla jihad in Afghanistan che non avrei mai potuto nemmeno immaginare in altri contesti. E il maggior vantaggio è stato il crollo del mito della superpotenza, un mito distrutto non solo nella mia psiche ma anche in quella di tutti i musulmani”. Così Bin Laden avrebbe presto rivolto la sua attenzione all'altra superpotenza planetaria. Nell'agosto del 1990 Saddam Hussein invade il Kuwait. L'alleanza internazionale che il presidente americano George Bush riesce a radunare contro il dittatore iracheno comprende anche alcuni paesi arabi, tra i quali l'Arabia Saudita.

    Musulmani contro musulmani, non è la prima volta. Ma per il condottiero che ha visto morire i suoi mujaheddin per difendere sasso dopo sasso i monti dell'Afghanistan, vedere il suolo santo dell'Arabia Saudita invaso dalla massiccia presenza di forze militari statunitensi equivale a una profanazione. Insieme con altri leader del fondamentalismo islamico, Bin Laden esprime il suo dissenso nei confronti della presenza militare americana e della politica seguita dalla famiglia reale, che ha consentito una simile profanazione. Sebbene il rango e la famiglia lo proteggano dal durissimo sistema penale saudita, Osama è oggetto di pesanti intimidazioni e decide di abbandonare il suo paese. Negli anni successivi vive tra Sudan e Afghanistan; realizza progetti per la costruzione di impianti agricoli e di strade in Sudan. Soprattutto, crea una rete planetaria di guerriglieri e terroristi, ai quali fornisce campi di addestramento e denaro. Ha anche il suo daffare, in verità, per sfuggire agli attentati alla sua vita, e per sviare le crescenti pressioni che Stati Uniti e Arabia Saudita esercitano sui governi che gli offrono asilo. Il 26 febbraio 1993 l'America è sconvolta dall'esplosione al World Trade Center di New York.

    L'inconcepibile è accaduto: un attacco terroristico sul territorio americano, il più fiero simbolo della maggiore città d'America sventrato. Otto mesi più tardi, i marine partiti per portare la pace diventano le vittime delle crudelissime battaglie di Somalia. Le televisioni mostrano il corpo nudo e inerte di un soldato americano trascinato da una jeep tra folle plaudenti di somali. La Cia comincia a intravvedere dietro questi incidenti la sagoma ieratica e sinistra di Osama bin Laden, lo sceicco del terrore. Nel 1994, il governo saudita priva Bin Laden del diritto di cittadinanza e ne confisca tutte le proprietà. Sebbene una parte consistente delle sue ricchezze siano ancora investite negli affari della sua famiglia, si calcola che Bin Laden possa contare su cifre comprese tra i duecento e i quattrocento milioni di dollari. Tra il 1995 e nel 1996 l'antiterrorismo americano collega Bin Laden a numerosi attacchi terroristici, tra i quali il fallito attentato al presidente egiziano Hosni Mubarak e i camion imbottiti di esplosivo fatti esplodere contro le installazioni militari americane a Riyadh e Dhahran. Quando anche il Sudan è costretto a espellerlo, Bin Laden ritorna nell'Afghanistan dilaniato dalla guerra civile. Tenta, senza riuscirvi, di mediare tra i signori della guerra; alla fine trova un rifugio sicuro presso i talebani, gli studenti di teologia fondamentalisti che hanno imposto manu militari all'Afghanistan uno dei regimi più repressivi del mondo. I talebani difendono l'illustre ospite, ormai prezioso alleato. Lui ricambia: “E' molto meglio vivere sotto un albero su queste alture, piuttosto che in una reggia della terra più sacra dovendo però subire la sventura per non poter venerare Allah nemmeno sul suolo più santo”. Negli ultimi anni Bin Laden è diventato la bestia nera di Washington. Il presidente Clinton ha segretamente dato alla Cia l'autorizzazione a ricorrere a qualsiasi mezzo al fine di distruggere la sua rete terroristica. Un'indagine giudiziaria è giunta a incriminarlo per “cospirazione ai danni degli Stati Uniti”.

    Da parte sua Bin Laden e i suoi compagni hanno intrapreso una campagna di pubbliche relazioni nel mondo islamico. Hanno diramato delle fatwa che delineano i loro scopi principali: cacciare gli Stati Uniti dalla penisola arabica, rovesciare i governanti corrotti alleati dell'Occidente e sostenere la lotta islamica in tutto il mondo. Una fatwa afferma seccamente che “agire in modo da uccidere gli americani e i loro alleati – civili e militari – è preciso dovere individuale per ogni musulmano che possa farlo in ogni paese in cui sia possibile farlo”. La guerra privata di Bin Laden contro gli Stati Uniti è giunta al culmine nell'estate del 1998. Il 7 agosto, ottavo anniversario delle sanzioni dell'Onu contro l'Iraq, due esplosioni simultanee devastano le ambasciate americane di Nairobi e di Dar es Salaam, uccidendo più di duecentoventi persone. Il 20 agosto gli Stati Uniti come rappresaglia lanciarono missili cruise contro un presunto campo di addestramento in Afghanistan e contro uno stabilimento farmaceutico in Sudan, altra presunta base terroristica. Sebbene Bin Laden fosse rimasto illeso, fonti spionistiche affermarono di averlo “intercettato mentre parlava a un telefono satellitare, cercando disperatamente di ottenere una stima dei danni e notizie dei disastri”. John Miller, il reporter della Abc che lo aveva intervistato pochi mesi prima, riceve un messaggio il giorno successivo: Bin Laden è vivo e vegeto e fa sapere che “la guerra è appena cominciata”. Se i Servizi segreti occidentali la raccontano giusta, la rete internazionale dei Bin Laden sarebbe al momento piuttosto malconcia. Lo stesso capo fondamentalista potrebbe essere catturato e trascinato in giudizio, oppure assassinato. E corrono voci anche sulla sua salute non buona. Eppure, la minaccia di morte non pare intimorire Bin Laden. Per lui, “essere ucciso per la causa di Allah è un grandissimo onore, conquistato solo da coloro che rappresentano gli eletti dell'Islam. Noi amiamo questa morte, la morte per la causa di Allah, tanto quanto voi amate la vita. Non abbiamo nulla da temere. Si tratta di qualcosa che noi desideriamo”. Sui muri pieni di crepe del maggiore seminario religioso del Pakistan è appeso un poster che ritrae Osama bin Laden, sorridente, che imbraccia un fucile automatico. Il direttore del seminario, Sami ul Aq, dice: “E' un eroe. Tutti i ragazzi di qui vorrebbero diventare come lui”.


    In breve
    E' nato nel 1957 a Gedda, in Arabia Saudita. Suo padre è il fondatore della maggiore impresa edilizia del paese. Riceve una rigida educazione religiosa. Nel 1979, all'invasione russa dell'Afghanistan, diventa uno dei più attivi finanziatori e leader della resistenza islamica. Dopo la Guerra del Golfo, lancia la jihad contro gli Stati Uniti. Si rifugia in Sudan, organizza una rete mondiale di terrorismo. E' ritenuto il mandante di numerosi attentati, tra cui quello al World Trade Center. Si nasconde in Afghanistan, protetto dai talebani.

    Sukumar Periwal
    è nato a New Delhi nel 1967. Ha studiato in Inghilterra, vive in Canada, fa lo scrittore