Pablo Picasso

Redazione

In un ritaglio della stampa francese, trovo notizie poco liete sulla salute di Picasso. Dopo aver subito la delicata operazione della cistifellea, non gode più della sua leggendaria salute di ferro. Sono i polmoni e i bronchi che gli dan serio fastidio. “Ha, probabilmente, fumato troppe sigarette Gauloises”.

di Antonio Aniante

    In un ritaglio della stampa francese, trovo notizie poco liete sulla salute di Picasso. Dopo aver subito la delicata operazione della cistifellea, non gode più della sua leggendaria salute di ferro. Sono i polmoni e i bronchi che gli dan serio fastidio. “Ha, probabilmente, fumato troppe sigarette Gauloises”, mi fa un collega della Costa Azzurra, che lo ha avvicinato spesso. Non sono interamente del suo parere; io penso che non è tanto il fumo, quanto il fuoco del suo forno di Vallauris, che, in venti anni di quotidiana presenza, gli è stato nocivo. Subito dopo la guerra, Picasso, sessantacinquenne, lasciava la brumosa Parigi per l'assolata Provenza; e si stabiliva sull'amena collina di Vallauris, fra Nizza e Cannes. Qui entrava in rapporti d'affari con la giovane coppia Ramiez, proprietaria della fabbrica di ceramiche Madoura.

    Picasso si consacrava alla terracotta. La mattina presto, eccolo al forno, al suo forno, in compagnia di alcuni operai italiani, fino a tardi la sera, la notte, non smettendo di lavorare. Vallauris, che deperiva a vista d'occhio, che si spopolava e impoveriva, ora, grazie alle originali ceramiche di Picasso, ritrovava gloria e prosperità, conquistava un primato mondiale nell'arte e nell'industria della terracotta. Un uomo, un solo uomo ha compiuto il prodigio: la popolazione è aumentata; il paese si è fatto più grande e più bello; le fabbriche di ceramiche si sono moltiplicate. Fenomeno identico si registra in alcuni altri paesetti della Costa Azzurra, adagiati su balsamiche colline: Renoir dà gloria e prosperità a Cagnes-sur-Mer, ove ha fissato il suo atelier; Matisse e Chagall fan la fortuna e la fama di Vence-la-Jolie; Braque, di Villefranche; Léger, di Biot; l'uno non lontano dall'altro, i cinque grandi, Matisse, Picasso, Braque, Léger, Chagall, han gareggiato a chi dà più universale splendore a piccoli borghi sperduti fra gli ulivi.

    Anche sotto la pioggia i turisti arrivano per visitare le sale, ove sono esposte le belle ceramiche di Picasso. Madame Ramiez li accoglie con il suo sorriso e con i suoi occhi tristi. Fu lei che, quattro lustri or sono, convinse Picasso a lavorare nella sua fabbrica; è lei l'animatrice di un'industria così nobile; a lei, Vallauris deve il suo benessere. Senza la sua forza di persuasione, Picasso quasi certamente, non avrebbe perseverato fra terra e fuoco. I turisti si ritrovano sulla piazza del paese, dinnanzi al monumento dell'Homme au mouton, l'uomo con il piccolo montone in braccio, firmato da Picasso; di là si recheranno ad ammirare l'immenso “Affresco della Pace”, anch'esso di Picasso, cittadino onorario di Vallauris. Senza alcuna speranza di poterlo vedere, mi sono inoltrato fin sotto le mura del suo castello di Mougins. Non ho insistito presso il guardiano. Cammin facendo, rivedo Picasso a torso nudo, in calzoncini da spiaggia, sudato e acceso in viso, dinnanzi al suo forno, che sta cuocendo la terra. Il ricordo non è di ieri ma di un passato che si può dire ormai remoto; e mi vien di pensare che la sua immane fatica di artigiano, di operaio, di manimpasta, è maggiormente ammirevole del fatto che egli, al pari di Matisse, alla fine della Seconda guerra mondiale era pittore celeberrimo e miliardario; le sue mani non erano callose, oscure, sciupate.

    Non è più, per lui, a Vallauris, sotto il sole, la vita sedentaria di Parigi, direi quasi la sua vita artificiale. Fra le vigne, gli ulivi e i fichi d'India, l'esule ritrova il vero se stesso, ritorna alle sue origini; si ritempra sotto lo stesso limpido cielo della nativa Malaga. Se fosse rimasto a Parigi, la sua fibra di lottatore si sarebbe logorata anzi tempo, minata come era dalle insidie del clima avverso; allora, Picasso, obbedendo all'istinto di conservazione, fuggì dalla nebbia al sole; e pur di riconquistare la sua natura mediterranea, non esitò a liberarsi, a spogliarsi d'ogni ricchezza, d'ogni gloria e di ogni piacere, a ritornare a una esistenza solare e primitiva: nel mare, a Golfe-Juan; dinnanzi al rustico forno, sulla collina patriarcale di Vallauris. Ho visto Picasso, sulla spiaggia, esibire al sole il suo corpo di gladiatore; ho visto Picasso dinanzi al suo forno ardente, fondersi nel sudore: fuoco del cielo, fuoco della terra; ho visto Picasso al riposo, dopo la fatica d'artigiano, seduto sulla soglia della fabbrica dividersi con i suoi operai il pane bigio, le olive, il vino, le sigarette.

    L'umiltà, la semplicità del ceramista Picasso a Vallauris sono proverbiali. Non è stato sempre umile e semplice; egli è, invero, di carattere fiero e scontroso; cosciente del suo genio, del suo rôle di caposcuola, della sua audacia, della sua temerità di avanguardista estremo, della sua potenza finanziaria, rifugge dai facili contatti; difficile è la sua scelta nelle frequentazioni e nelle amicizie; è un solitario per volontà. Il pittore Picasso, a Montparnasse, fa dire dal suo maggiordomo all'illustre critico d'arte Lionello Venturi, che era andato a trovarlo: “Il maestro dipinge e si scusa di non potervi ricevere”. Venti anni dopo, l'artigiano Picasso, a Vallauris, lo attenderà, a sua volta, circa un'ora, e invano, scusandolo, nei primi trenta minuti, con indulgenza e pazienza, da certosino. Il Venturi, nel frattempo, era rimasto come invischiato nella vicina collinetta di Vence-la Jolie, nello studio del suo beniamino, del suo pittore preferito, Marc Chagall. Picasso l'aspettava, non per mostrargli le sue più recenti opere di pittore, ma i suoi piatti, i suoi boccali, le sue anfore, i suoi vasi, le sue giare, il suo forno, che stava acceso; il suo forno che ora è spento

    di Antonio Aniante (“Memorie di Francia”, Sansoni)  

    In breve
    Antonio Aniante • Pseudonimo di Antonio Rapisarda. Nacque a Viagrande, Catania, nel 1900. Fu narratore e autore teatrale, esordì sotto l'influenza del movimento novecentista di Massimo Bontempelli. Precoce collaboratore della rivista 900, il suo primo romanzo importante esce nel 1923 (“Sara Lilas”), nel 1932 è la volta di “Amore mortale”. Nel frattempo aveva messo in scena a Roma la prima commedia, “Gelsomino d'Arabia”. Negli anni 30 emigra in Francia, dove entra in contatto con i maggiori intellettuali e artisti dell'epoca. Rientrato in Italia, continuò a scrivere fino agli anni 70 (“La zitellina”, 1955, “La canicola”, 1970). Morì a Ventimiglia nel 1983.