Arthur Penn, il cinema liberal non molla mai

Redazione

Che guaio chiamarsi Penn. Arthur Penn, Mostro Sacro Senior del cinema non è il padre di Sean Penn, Mostro Sacro Junior. I due non sono neppure parenti e nessuno di loro discende da William Penn, colono americano e fondatore dello Stato della Pennsylvania. Anche se Arthur, il regista, in Pennsylvania è casualmente nato (a Philadelphia) nel 1922.

di Marta Boneschi

    Che guaio chiamarsi Penn. Arthur Penn, Mostro Sacro Senior del cinema non è il padre di Sean Penn, Mostro Sacro Junior. I due non sono neppure parenti e nessuno di loro discende da William Penn, colono americano e fondatore dello Stato della Pennsylvania. Anche se Arthur, il regista, in Pennsylvania è casualmente nato (a Philadelphia) nel 1922. Per eliminare ogni equivoco occorre ricapitolare, armandosi di pazienza. Sean Penn è figlio di Leo Penn, attore, bruno, sceneggiatore e regista, e di Eileen Ryan, bionda e attrice. Ma gli artisti nascono e crescono a grappolo, e perciò nell'altra famiglia Penn il regista Arthur ha un fratello, Irving, famoso fotografo di moda. Non pare dunque sconsigliabile adottare il cognome Penn a chi intenda intraprendere una carriera nello spettacolo. Porta fortuna, o almeno questo è accaduto ad Arthur, che ha esordito nella vita come povero figlio di immigrati ed è ora celebrato tra i classici del cinema del Novecento. Ottantenne snello dagli occhi blu porcellana incastonati in un viso dai lineamenti fini, ha un sorriso da ragazzo che completa uno stile intellettuale e giovanile, contraddistinto dall'abbigliamento in tweed e camoscio, di quelli molto casualmente studiati, e politicamente corretto (sebbene nelle tinte accese dei radicali più che in quelle tenui e signorili dei liberali). Attualmente presidente dell'Actor's Studio, Arthur ha alle spalle una fertile carriera, fitta di alti e bassi, puntualmente segnalati dal pubblico e dalla critica, di solito tutt'altro che concordi. Ha nutrito di storie e immagini almeno tre generazioni, che hanno visto e rivedono le sue pellicole: chi ha amato “Billy the Kid, furia selvaggia” nel 1958 ha forse detestato “Piccolo grande uomo” del 1970 e forse è rimasto deluso da “Missouri”, un calligrafico duetto tra Marlon Brando e Jack Nicholson, che porta la data del 1976. Il pubblico del resto ha adorato “Anna dei miracoli” nel 1962 in quanto straordinaria e simbolica rappresentazione della faticosa lotta per vivere. Ma non ha riservato uguale accoglienza a “Target” del 1985, dove pure Walter Lloyd (Gene Hackman) è di quegli eroi che non si arrendono neppure se accerchiati. La lotta contro il destino, dice Penn, rappresenta “la normale condizione umana”. È questo che gli preme di raccontare a milioni di persone. Con un papà orologiaio, sbarcato negli Stati Uniti dalla Lituania, Arthur attraversa un'infanzia tutt'altro che lieta, aggravata dal divorzio dei genitori quando lui ha tre anni (la madre è costretta a lavorare duramente come infermiera) e un'adolescenza afflitta dalla Grande Depressione. Se ripercorre quegli anni, non riesce a ricordare un giorno diverso dagli altri: lui, Irving e la mamma non hanno mai festeggiato una ricorrenza religiosa, un compleanno, un Natale, una Pasqua. Non c'erano soldi in casa, e può darsi che tanta miseria, tanto grigiore abbiano trasportato facilmente il bambino Arthur in un mondo dell'immaginazione, ricco di quell'azione, suoni e colori, che costituiranno il suo cinema. Quando racconta quell'infanzia senza felicità ma non infelice, lo fa senza piangersi addosso: “Avevamo quel che basta”. A New York, dove Arthur con mamma e fratello si sono trasferiti, quel che basta è una, almeno una, opportunità di migliorare la propria esistenza. Arthur la incontra ben presto grazie alla Seconda guerra mondiale. Nel 1943 viene richiamato e spedito a Fort Jackson, una località piuttosto sperduta del North Carolina, per diventare un fante mitragliere. Non c'è molto da fare a Fort Jackson, ma è possibile scegliere tra bere una birra passando da un locale all'altro oppure organizzare spettacoli sottraendo clienti all'inesauribile mercato degli alcolici. “Voi che cosa avreste scelto?” chiede quasi cinquant'anni più tardi Penn agli allievi dell'Actor's Studio. Decide di organizzare spettacoli insieme a un amico, finché arriva l'ora di partire per il fronte europeo, ma ormai il conflitto è agli sgoccioli. Affrontato il fuoco sulle Ardenne, vinta la guerra, Arthur si vede offrire nel 1945 un veloce congedo, purché gestisca una compagnia teatrale composta di militari e di circa cento attrici venute dalla California, a beneficio dei soldati in attesa di smobilitazione. Capace di acchiappare la fortuna, Penn accetta. Smobilitato, l'anno successivo studia recitazione a New York, ma poco dopo cambia idea e approfitta delle facilitazioni offerte ai reduci: tanti anni di studi gratis quanti se ne sono spesi sotto le armi. Riattraversa l'Oceano e sbarca in Italia; a Perugia studia la poesia del Rinascimento, e a Firenze la storia dell'arte. “Non domandatemi perché” avverte l'ex mitragliere e impresario di guerra, che comunque conosce la “Divina Commedia” e la lingua italiana. Quando ritorna a casa, è abbastanza esperto di spettacoli teatrali e ha le conoscenze utili per trovare lavoro nell'ambiente.

    Comincia con la neonata televisione, dapprima alla Nbc e poi, tra il 1953 e il 1955, alla Cbs, dove in poco più di due anni realizza circa duecento telefilm. Campione di produttività, è ormai pronto per debuttare nella regia teatrale. A Broadway mette in scena per la prima volta “Anna dei miracoli”, che diventerà uno dei suoi cavalli di battaglia. Appassionato, accanito, ma forse anche inseguito dallo spettro della propria infanzia povera, non si nega a nessuno e tocca primati inconsueti: a un certo punto sono cinque gli spettacoli in cartellone a Broadway che portano la sua firma. Nel 1958 ha l'opportunità di sperimentare le proprie capacità nel cinema. Realizza “Billy Kid furia selvaggia” con Paul Newman. Newman è soltanto il primo di una sterminata collezione di attori da brivido, che l'ex bambino povero di Philadelphia fa recitare senza soggezione. “Billy the Kid” non piace gran che al pubblico americano. Penn torna al teatro, pensando probabilmente di aver chiuso per sempre una parentesi non del tutto piacevole. Con il cinema, invece, riprova nel 1962 con “Anna dei miracoli”, un testo che conosce a fondo e maneggia con disinvoltura. Forse non si aspetta di sfondare. Ce la mette comunque tutta, e ancora adesso ricorda come un incubo la fatica di realizzare la scena nella quale Anne Sullivan, (Anne Bancroft) insegna a mangiare alla sua allieva cieca, sorda e muta (Patty Duke). La troupe ripete per ore e ore, perché al regista non pare mai abbastanza drammatica la lotta tra le due donne, mai abbastanza violento il corpo a corpo, mai troppo repellente quel cibo rovesciato, mai abbastanza simbolici quegli occhi che non vedono (anche l'insegnante Sullivan è quasi cieca e porta gli occhiali scuri) ma sono guidati da una gran voglia di vivere. Le due attrici, ormai riprese dalla fatica, meriteranno un Oscar ciascuna. Per il regista invece arriva una consacrazione ufficiale: nella consuetudine quantità tiva che è tipica della cultura americana, viene classificato tra i migliori della sua generazione. Perdenti per vocazione come il ragazzo bandito Billy Kid o infelici che si riscattano come Anne Sullivan sono il modo scelto da Penn per raccontare come il sogno americano possieda un suo rovescio. Gli anni Sessanta sono abbastanza smaliziati per accettare tali storie, al regista ormai quarantenne viene offerta la possibilità di girare subito un altro film. Lui accetta, prepara “Il treno” e, come è sua abitudine, arruola un esercito di celebrità. Il più divo di tutti è Burt Lancaster che, dopo una decina di giorni di lavoro, gli gioca uno scherzo indimenticabile: trama e briga alle sue spalle finché riesce a farlo licenziare. Penn rimane sbalordito e se la lega al dito. Fino alla morte di Lancaster, non perderà occasione di rievocare quel tradimento – unica traccia di un cattivo rapporto con le sue star in mezzo secolo di carriera – e di precisare che lui quell'episodio non lo ha dimenticato né perdonato. Dopo lo sgambetto del “Treno”, Arthur torna al teatro. Eterno rifugio delle sue amarezze professionali, Penn torna a lasciarlo soltanto per realizzare un film interamente suo, “Mickey One”, che ha per protagonista Warren Beatty. È la storia di un altro personaggio scombinato e perdente che tuttavia non suscita gli entusiasmi della critica e del pubblico. Ma ormai non si discute più né della vena cinematografica né della bravura. Eppure la sua opera, un po' troppo raffinata rispetto alle pappe di celluloide impastate a Hollywood, è meglio osannata in Europa dove André Bazin ne ha santificato i meriti sugli altari dell'intellettuale rivista francese Cahiers du Cinéma. La seconda metà del decennio segna il culmine creativo – e il successo – di Penn. Con “La caccia” tocca a Marlon Brando, Jane Fonda e Robert Duvall di obbedire al regista dei divi; con “Gangster story”, la storia di Bonnie e Clyde, sono in campo Warren Beatty e Faye Dunaway. A Warren Beatty viene riservata l'esperienza memorabile, già attraversata da Anne Bancroft, di trascorrere intere giornate a contorcersi crivellato di pallottole sotto l'occhio severo della macchina da presa e quello incontentabile del regista, nella scena conclusiva dell'esistenza del rapinatore Clyde. Ogni dettaglio, sangue, contorsioni, bang e fori degli spari, va ricostruito e perfezionato a ogni nuovo ciak. Beatty è rivestito di una imbottitura contenente il liquido rosso sangue, che va restaurata, rimessa in funzione e indossata di nuovo a ogni tentativo. La scena, pochi minuti sullo schermo, è costata tanto sudore e pazienza, che Penn la ricorda come una delle più aspre sfide della sua carriera, insieme a quella già vinta con Anne Bancroft nel 1962 e a quella con Dustin Hoffman nel 1970 in “Piccolo grande uomo”. Questa volta, con il protagonista davanti al generale Custer, non si tratta di un confronto fisico all'insegna dell'acrobazia e della gestualità violenta, ma di un sottile scambio di occhiate e parole tra il protagonista, perennemente profugo tra i “visi pallidi” e i “musi rossi”, e il fanatico avversario degli indiani.

    I muscoli facciali di Hoffman vengono sottoposti a un duro addestramento, e sono di nuovo ore e ore di ripetizione e perfezionamento, finché i due consegnano al pubblico un film che ha suscitato l'entusiasmo mondiale trent'anni fa e che possiamo godere ancora oggi. “Piccolo grande uomo” segna davvero un'epoca, perché rovescia l'epopea classica americana: qui i buoni sono gli indiani. Con “Alice's Restaurant” del 1969 e soprattutto con “Piccolo grande uomo” Penn conquista la sua più alta vetta creativa, rappresentando quella che ormai è una sua specialità: il rovescio del sogno americano, le amarezze che trascina dietro di sé, gli sconfitti, gli infelici. Poi, proprio mentre è circondato da un'aureola di gloria, entra in un silenzio che dura a lungo: “Ho abbandonato la partita: durante tre anni ho cessato di fare ciò che mi piaceva, quello che volevo… le ragioni della mia depressione e della mia crisi erano molto personali”. All'avvicinarsi dei cinquant'anni si eclissa, avviluppato in una nube nera di inaridimento artistico e di sofferenza privata. Nel 1972 si trova tuttavia a Monaco, insieme a un gruppo di registi incaricati di raccontare le Olimpiadi al cinema. Assiste all'attentato palestinese, vede i morti, subisce la ferita interiore della violenza (questa volta non ci sono liquidi rossastri e finti bang bang). La scena della realtà americana e internazionale di quel periodo non gli suggerisce nulla di confortante, e anzi aggrava il suo disagio: “Ero molto scosso durante gli anni Settanta. A cominciare dal 1972, quando giravo una sequenza a Monaco per film sulle Olimpiadi e ho assistito al massacro. Ho smarrito la strada in quel decennio, proprio nel momento in cui registi interessanti si facevano avanti. Non sapevo come cogliere di nuovo la realtà”. La realtà mostra a lui – e a tanti come lui – la caduta del presidente Richard Nixon dopo lo scandalo Watergate, l'ignominiosa conclusione della guerra in Vietnam, l'avanzare di una generazione giovane e disinvolta. Riesce faticosamente a liquidare la crisi della mezza età, riprende a lavorare e torna sullo schermo con “Bersaglio di notte” nel 1975 e poi con “Missouri” nel 1976. Nel 1977 tenta di realizzare un suo vecchio progetto, quello di raccontare la rivolta del carcere di Attica, uno dei traumi della memoria recente, un ennesimo rovescio del sogno americano, ma non riesce a portare a termine il film. Dopo otto anni di assenza, trova ancora asilo a Broadway per una regia teatrale. Nel 1981 esce un nuovo film, bello, intimista alla vecchia maniera, “Gli amici di Georgia”, e nel 1985 “Target”, ma Penn si sente più di prima estraneo al cinema hollywoodiano e al nuovo corso degli eventi americani. In realtà, tra Penn e l'industria non è mai corso buon sangue. Si sono sopportati con pazienza fin da quel giorno lontano in cui, finito di girare “Billy the Kid”, un signore si presentò a Penn: “Buongiorno, sono il montatore”. E Penn indignato: “Il mio film lo monto io e nessun altro”. A Hollywood rimprovera parecchie cose, tra le quali il fatto di bocciare senza scampo “un cinema che non sia omologato, che non sia congeniale alla grande macchina mangiasoldi”, ma anche il fatto che lì comandano i manager, i quali preferiscono affidare i film a “uomini e donne dalla scarsa personalità” per non incontrare problemi. Non si sente in sintonia con quel mondo, non gli va a genio neppure uno come Spielberg – secondo Penn, fa un “cinema da bambini” – e constata il declino creativo della sua generazione di contestatori. Dell'America di Reagan vede soltanto il peggio e rimpiange il passato. Nel 1990 dichiara: “Mi manca il clima degli anni Sessanta, anche se era la risposta a una guerra terribile. Mi manca l'America politica, mi manca il cinema di un tempo”. Diventa di fatto un pensionato: insegna ancora qualche cosa ai giovani dell'Actor's Studio, distribuisce premi e riconoscimenti, e dichiara che i nipotini “sono la cosa a cui tengo più di tutto”. 

    di Marta Boneschi