I fratelli Molinari
Non c'è una formula per diventare i fratelli Molinari, certo, loro sono unici, ma andando a vedere dove e come tutto è cominciato, qualcosa si capisce. Ci facciamo raccontare da Edoardo detto Dodo da Torino e Francesco da Londra, dove vive (e da dove confida di seguire il Foglio on line). Comincia Dodo: “Abbiamo iniziato a giocare quando avevamo cinque o sei anni. I nostri genitori giocavano a golf e noi andavamo con loro il sabato e la domenica”.
di Paola Peduzzi e Piero Vietti
Quando, alla 18 di Mission Hill, un inferno di acqua e sabbia, Edoardo ha tirato al green e non l'ha preso, è finito a destra, in bunker, Francesco non ha fatto una piega, mentre suo fratello si accasciava, le mani sugli occhi, mannaggia che ho fatto. I fratelli Molinari – esempio raro di famigliari che non soltanto giocano benissimo a golf ma riescono a farlo insieme senza scannarsi (di solito le famiglie si sfasciano, sui campi da golf) – erano in testa alla Coppa del mondo, un colpo davanti a tutti gli altri, irlandesi e svedesi, avevano dato prova di una forza e di una concetrazione sorprendenti, i commentatori in tv non stavano più nella pelle, e così, tutto a un tratto, un colpo impreciso e tutto è messo in discussione. La formula di giornata prevede un colpo a testa – formula sciagurata – e tocca a Francesco, il calmo Francesco, tirare i fratelli fuori dai guai, lui che ha già imbucato due putt da più di dieci metri nelle seconde buche, con quella naturalezza che c'è soltanto nelle giornate di grazia. Il colpo non è facile, dietro al green c'è l'acqua, soprattutto c'è la pressione di tutta una gara, di una Coppa del mondo, di un paese che non l'ha mai vinta, e il commentatore in tv dice che in momenti come questo i bastoni pesano cinquanta chili.
Francesco va a guardare come è messa la palla nella sabbia, poi esce, prende il bastone, fa qualche prova. Suo fratello lo guarda, sa che si può fidare, ma sa anche che, comunque vada, il colpo successivo toccherà a lui, la sofferenza è lunga. Francesco increspa le labbra – lo fa sempre, prima di ogni colpo, è l'unica manifestazione di un'emozione, altrimenti è impassibile, rassicurantemente impassibile –, entra nella sabbia, affonda i piedi, si posiziona, tira. Colpo perfetto, palla a meno di un metro. E' quasi fatta, per scaramanzia Francesco prende comunque il putt, anche se tocca a Edoardo. Meno di un metro, è quasi “data”, si dice in gergo, ma, come ripetono i maestri ai ragazzini sempre troppo sicuri, “c'è tanto di quel golf in un putt di un metro”, tutto può succedere. Intanto gli irlandesi sbagliano il loro colpo che avrebbe potuto minare la leadership italiana, quindi tutto è nelle mani di Edoardo: se imbuca è fatta, altrimenti si va al playoff, e lì non soltanto i ferri sono come macigni, lì c'è il ricordo di un putt sbagliato a quella distanza, un peso insostenibile. Studiano la linea insieme, di qui e di là dalla buca, poi Edoardo si mette lì. Che ansia. C'è solo lui inquadrato. Lento e preciso, si concentra, muove il putt, parte la palla. E' buca. Non si godeva così da quando Costantino Rocca imbucò un putt chilometrico al British Open del 1995 per andare al playoff (che poi avrebbe perso), e si inginocchiò con la fronte a terra. Edoardo invece salta e scalcia come un cavallo, Francesco fa il segno alla Tiger, pugno stretto e vai, Edoardo arriva e lo travolge, lo abbraccia fortissimo, quasi lo fa cadere. Finalmente Francesco sorride.
Non c'è una formula per diventare i fratelli Molinari, certo, loro sono unici, ma andando a vedere dove e come tutto è cominciato, qualcosa si capisce. Ci facciamo raccontare da Edoardo detto Dodo da Torino e Francesco da Londra, dove vive (e da dove confida di seguire il Foglio on line). Comincia Dodo: “Abbiamo iniziato a giocare quando avevamo cinque o sei anni. I nostri genitori giocavano a golf e noi andavamo con loro il sabato e la domenica”. Circolo Torino, appena fuori dalla città, in quella meraviglia di parco della Mandria. Lì i Molinari stavano con gli altri bambini, una fucina di talenti, altro che sport da vecchietti: “Magari giocavamo due ore a golf e poi facevamo una partita a calcetto o a ping pong”. Se sei in un gruppo di venti bambini anche il campo pratica diventa un posto divertente. “Se ti piazzano lì da solo a cinque anni è già tanto se reggi dieci minuti”. Dopo pochi anni Edoardo e Francesco entrano nel giro della Nazionale dilettanti. Prima le gare giovanili, poi i tornei all'estero. Tocca a Francesco, detto Chicco: “Allora non avevamo ancora l'idea di diventare professionisti. Era più un sogno che un progetto”. Quella è l'età in cui oggi tanti ragazzi invece vogliono subito fare il salto al professionismo: “Sì, magari proprio perché vedono noi pensano che sia facile e mollano gli studi”, dice Edoardo. Loro no, loro hanno studiato.
Il maggiore si è laureato in Ingegneria, Chicco ha studiato Economia. Merito anche dei genitori? Dodo: “Loro sono stati importanti; ma i primi che si sono resi conto che studiare serve comunque nella vita siamo stati noi”. “E poi era un paracadute sempre pronto se le cose fossero andate male”, aggiunge il fratello più piccolo. Edoardo dice che “una parte dei risultati degli ultimi tempi l'abbiamo raggiunta anche grazie a questo”. Soprattutto nelle interviste, soprattutto se vinci la Coppa del mondo, soprattutto se ti metti a parlare e nell'emozione non sbagli una parola in lingua straniera. “Se non impari bene l'inglese la prima volta che sei da solo all'aeroporto di Shanghai non ne esci più”. Sono sul tetto del mondo e sono sempre così pacati, tranquilli, umili.“Andando avanti a giocare – racconta Francesco – vedevamo che i risultati arrivavano e abbiamo deciso di provare il salto. A me è andata bene subito, per fortuna”. Francesco, più piccolo di due anni, è sempre andato più forte, e nel novembre del 2004 è diventato professionista. Edoardo lo ha seguito due anni dopo, con un ritardo di un anno rispetto alla tabella di marcia. Il passaggio doveva esserci a fine 2005, ma nell'agosto Edoardo vince la più grande gara per dilettanti in America, lo Us Amateur, che permette di partecipare a tre tornei del grande slam con i professionisti, “e quindi sono rimasto un anno in più per giocare quelle gare”.
Tutto perfetto, anche nell'armonia tra fratelli. Ma siamo sicuri? Assicura Edoardo: “Abbiamo sempre avuto un bellissimo rapporto”. Nemmeno un po' di gelosia per il fratello più piccolo che diventa pro prima di lui: “Siamo stati abituati fin da piccoli a fare le gare insieme, anche a giocare uno contro l'altro”. Nel golf non vince sempre lo stesso, poi. “Siamo cresciuti sapendo che una volta toccava a me e una volta a lui. E' così da sempre”. “Solo sana competizione. Io sono contento quando lui vince – confida Francesco – E lui lo è se vinco io”. Merito di come sono stati tirati su o del golf che è sport più da signori di altri? “Se nel calcio ce l'hai con uno gli puoi fare male – dice Edoardo – nel golf ovviamente no. Questo aiuta, ma quando sei in campo sei amico fino a un certo punto con gli avversari”. Soprattutto quando giocare diventa un lavoro. E quando questo lavoro ti porta a girare il mondo e a non stare a casa fino a trenta settimane all'anno. “Ci sono mattine in cui mi sveglio e i primi cinque minuti cerco di mettere a fuoco se sono in Olanda o negli Stati Uniti”, dice Edoardo.
C'è solitudine anche dietro al mondo verde e sponsorizzato del golf? “No, anche se credo dipenda dal tuo carattere. Se sei uno che andrebbe a una festa tutte le sere, questa vita non fa per te. Andando in giro cominci a conoscere altre persone con cui nel tempo diventi amico. A me poi bastano poche persone per trovarmi bene in un posto. Non credo di essermi mai sentito solo-solo”. Francesco ha una risposta diversa: “Un po' di solitudine c'è, e questo se vogliamo è un aspetto faticoso rispetto a una vita più ‘normale'. Per questo è importante avere accanto persone che ti aiutano. Penso a mia moglie Valentina, per esempio, che da due anni mi segue e mi ha aiutato a migliorare il mio carattere e anche a dare meno importanza alle cose quando non vanno per il verso giusto. E' vero che giocando si incontrano tante persone, ma in fondo in fondo con tanti si rimane colleghi, non amici”. Serve un punto fisso. “Capita di trovarmi stanco e sballottato – ammette Edoardo – tornare a casa a Torino per me è trovare questo punto, non penso ne servano altri”. Forse è davvero questione di carattere. Dopo avere imbucato quel putt alla diciotto Edoardo ha esultato indemoniato, Francesco ha sorriso. “Chicco è più tranquillo – dice il fratello – ogni tanto sembra quasi distaccato. Anche quando è a casa prende le cose molto con calma”. Edoardo si definisce “più determinato a raggiungere gli obiettivi che mi prefiggo. In campo, mentre gioco, sono un po' più nervoso, sento di più la tensione. Anche se forse da fuori non si vede”. Francesco in realtà sostiene che Dodo sia “molto riflessivo, anche se a vederlo saltare così poteva sembrare un pazzo. C'è da aggiungere poi che ha avuto la fortuna-sfortuna di dovere mettere in buca proprio il putt decisivo. La sua esultanza è comprensibile”.
Adesso c'è la Ryder Cup. Per la prima volta nella squadra europa ci sono due italiani. Edoardo non si pone limiti particolari: “Magari tra qualche anno metto su famiglia anche io, chi lo sa”. L'intenzione è quella di andare avanti ancora a lungo. Diventare il numero uno del mondo? “Fino a quando c'è Tiger Woods mi sa che è difficile – scherza Francesco – Di sicuro non mi pongo limiti, ma sono consapevole che già arrivare fino a qui è stata dura. Certo so che ci sono i margini e il tempo per migliorare ancora”. Ora che hanno vinto la Coppa del mondo dicono che per loro non cambierà molto, ma sperano che per il golf italiano questo sia un nuovo inizio. “Il segreto è cominciare – dice Edoardo – conosco poca gente che dopo avere provato hai smesso perché lo trovava noioso. Magari se si parla di noi, tanti ragazzi proveranno a scendere sul green”. Sognando di saltare come Dodo o di sorridere rassicurante come Chicco.
di Paola Peduzzi e Piero Vietti
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