Daniele De Rossi - foto Ansa

Roma Capoccia

La tragedia del romanista dietro al benservito a Daniele De Rossi

Francesco Stocchi

Rabbia e insulti verso la società che ha licenziato l'allenatore, come se fosse una questione personale. C'entra l’identificazione del tifoso romanista nella sua squadra, ma anche la passione che ha incarnato bene De Rossi

C’è del marcio a Trigoria, avrebbe detto il grande Totò. O forse solo incompetenza calcistica e, sicuramente, grande incoerenza, leggo. Sento tanta rabbia, insulti verso la società e scuse nei confronti della persona, come fosse una questione per tutti personale. Daniele De Rossi non è più l’allenatore della AS Roma. Un ingaggio prematuro, una scelta a sorpresa, espressione del pragmatismo americano della società, identificato come l’unico che avrebbe fatto digerire il licenziamento in tronco di un figura ingombrante quale José Mourinho. Un licenziamento azzardato, frettoloso, figlio di un’estremizzazione dell’ansia da prestazione che vive il mondo del calcio attuale. Se i grandi cicli che hanno indissolubilmente associato allenatore e squadra al di là di tempeste stagionali, ora si chiede tutto e subito e magari a lungo. Il modo di intendere calcio è divenuto espressione della snervante continuità oppressiva dei social, un tam-tam continuo del popolo al comando che nel caso della Roma diventa popolino dalla fervente instabilità emotiva. L’identificazione del tifoso romanista nella sua squadra è tale che questa diventa depositaria delle problematiche che una città difficile come Roma offre. Il tifo non intenso come attività liberatoria, “svago” che aiuta ad abbandonare temporaneamente la soglia del terreno, bensì forma di tutta la gravità che quotidianamente anima le giornate.
 


Le passioni, le espressioni e le decisioni non possono che essere emotive, risultanti in una dicotomia polarizzante tra chi tiene allo spirito e chi alla materia. Chi segue il senso ideale delle cose, ciò che una figura come De Rossi rappresenta per la Roma e per il romani e chi invece guarda i risultati e solo a quelli come occasione transitoria di riscatto personale. Quindi se un allenatore vincente e capace, e perlopiù ex laziale come Diego Simone porterebbe vittorie e trofei alla Roma, allora ben venga, pensano certi. La tragedia romanista sta proprio nell’estremizzazione di queste posizioni e Daniele Rossi non poteva incarnare manifestazione più limpida. I risultati non vengono, ma lo spirito, l’aberrazione e l’identificazione ci sono, quindi diamo tempo. Non è più cosi. De Rossi esce da Trigoria, licenziato in tronco, sorridente, pronto a firmare autografi perché sa che il legame con la tifoseria rimarrà intatto e questo gli basta. Dissidi societari da parte di un allenatore che prima di tutto è tifoso che avrà a volte messo la passione prima della convenienza ma va bene cosi perché di figure come De Rossi ce ne sono poche, pochissime ormai e che andrebbero tutelate se non altro per preservare quegli ultimi scampoli di passione e identificazione che questo calcio riesce ancora a esprimere. Dopodiché sarà solo spettacolo.

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