In nome del “super-untore”
Ma davvero la paura del virus giustifica il giustizialismo lessicale?
Non si sa se è il lessico giornalistico che ormai si è piegato alle esigenze mediatico-accusatorie (giustizialismo lessicale?) o se la diffusione del coronavirus ha fatto perdere di vista le più elementari regole di tutela degli innocenti, malati e sani, fatto sta che negli ultimi due giorni un cittadino britannico di nome Steve Walsh è stato sbattuto in prima pagina, con tanto di foto, età, elenco dettagliato degli spostamenti e informazioni su professione e famiglia, su siti e quotidiani non soltanto britannici ma anche italiani, al grido di: ecco il “superspreader” di coronavirus, il “super-untore” capace di contagiare “inavvertitamente undici persone” in Francia dopo aver contratto la malattia durante un viaggio di lavoro a Singapore. E anche se poi si è scoperto che è stato il superuntore a rivelare la propria identità, la noncuranza con cui il suo nome è stato diffuso urbi et orbi fa molto pensare, tanto più che, al momento della diffusione della notizia, Walsh si trovava ancora in isolamento in ospedale. Come fosse un evento della categoria “strano ma vero”, i titoli si rincorrevano: “I viaggi inglesi del superuntore”, si leggeva su Repubblica; “guarito il superuntore”, si leggeva sul Messaggero e su Leggo.
“Il viaggio del paziente inglese che ha infettato undici persone” (sempre Repubblica); “il superuntore e i termoscanner nelle stazioni”, si leggeva su www.mediasetplay.it. E ieri una simile sorte si preparava per “la russa evasa dalla quarantena… era in gabbia” (ancora anonima, ma per quanto?). Non si arriva al “dàgli all’untore”, anzi, ma si racconta che il medesimo “di certo ha contagiato undici persone”, e non ci si rende conto del precedente: mettere un malato con foto sul giornale è proprio necessario, vista la grande paura anche irrazionale che dilaga attorno a un virus contro cui non c’è ancora un vaccino, ma per il quale la mortalità risulta bassa? Pensarci su.
cattivi scienziati
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