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Editoriali

La battaglia sbagliata di Slow Food

Redazione

Il movimento fa battaglie per ottenere prezzi più alti e meno concorrenza a favore dei propri agricoltori: puntano il dito verso il progresso tecnologico e l'ingegneria genetica, sottovalutando però tutti i pericoli legati a un ritorno a metodi produttivi e organizzativi già superati

Più biologico e meno sprechi: è questa la ricetta proposta da Slow Food al G7, in alternativa al “modello di agricoltura nato nel Dopoguerra basato sullo spreco e sull’abbattimento del valore del cibo”. E’ vero, secondo l’organizzazione fondata da Carlin Petrini, che “questo modello ha permesso per alcuni decenni un forte aumento di produttività: tra il 1959 e il 1985 le rese agricole sono cresciute del 250 per cento”. Tuttavia, esso ha anche determinato crescenti impatti ambientali legati ai consumi energetici, alla perdita di agrobiodiversità e al cambiamento climatico. E neppure, sempre secondo Slow Food, ciò ha fatto la fortuna degli agricoltori, anzi: “La chiave della cosiddetta rivoluzione verde del Dopoguerra è stata proprio lo spostamento della ricchezza dal settore agricolo a quello industriale, dalla terra ai nuovi mezzi tecnici per lavorarla”. Ne segue un decalogo fatto perlopiù di auspici su cui non si può non essere d’accordo (sì a chi alleva animali con rispetto, sì all’educazione alimentare, no allo spreco, sì alla diversità e all’accoglienza e via discorrendo).

E chi mai potrebbe essere contrario? Solo che ci sono due punti attorno a cui tutto ruota: “Sì a prezzi giusti per gli agricoltori” e soprattutto “no agli Ogm e ai brevetti”. Slow Food combatte una legittima battaglia lobbistica per i suoi stakeholder di riferimento, per i quali chiede prezzi “giusti” (cioè più alti) e meno concorrenza. Solo che non si interroga sulle conseguenze di ciò: con tutti i suoi limiti, l’agricoltura moderna e il progresso tecnologico (inclusa l’ingegneria genetica) hanno consentito di aumentare le rese dei campi e sfamare, a prezzi sostenibili, gran parte dell’umanità. Tornare a metodi produttivi e organizzativi superati significa buttare a mare l’enorme trasformazione che l’agricoltura ha subìto, e senza la quale non sarebbe possibile per il pianeta sostenere altri otto miliardi di esseri umani. Ognuno ha diritto alle sue battaglie ma ha anche il dovere di riconoscere onestamente su chi ne vuole scaricare i costi.

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