Fare più scuola, ma se serve a lavorare
L’obbligo a 18 anni senza ripensare il rapporto con l’economia è un parcheggio
Valeria Fedeli, in un discorso al Meeting di Rimini, ha rilanciato l’ipotesi di un elevamento dell’obbligo scolastico a 18 anni “perché un’economia come la nostra, che vuole davvero puntare su crescita e benessere, deve puntare sull’economia e sulla società della conoscenza”. L’argomento è davvero troppo generico, ma il tema è interessante. Una società avanzata mantiene un ruolo solo se è in grado di produrre beni e servizi con un tasso di innovazione superiore, e per farlo è necessaria una formazione adeguata. Il punto però è che la scuola, così com’è, gira a vuoto, senza una connessione reale con la produzione e il lavoro. Aumentare la durata della scuola così com’è servirebbe a aumentare un po’ l’occupazione di docenti dequalificati e quindi sottopagati e a nascondere una parte della disoccupazione giovanile. Vale la pena di avere più scuola se questo significa creare un circuito virtuoso tra formazione e lavoro, che è stato spezzato anche per il prevalere di una visione idealistica dell’indipendenza della cultura dalla società. Paradossalmente è da sinistra che si è alimentata questa separazione, nonostante che la lezione di Antonio Gramsci sul lavoro come principio educativo si contrapponesse già un secolo fa alla concezione idealistica della cultura “disinteressata” di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Se la titolare dell’Istruzione davvero vuole connettere la scuola alla società deve prima affrontare questi problemi, dare al sistema formativo un’efficacia e un rapporto proficuo con il mondo della produzione. Una scuola che ritrovi questa connessione è una scuola su cui investire tutte le risorse disponibili. La scuola così com’è oggi, pure allungata, è un costo più che una risorsa, e non senza ragioni.
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