Felice Casorati, “Gli scolari” (1927-1928), olio su tavola. Palermo, Galleria Civica d’Arte Moderna 

l'indagine

Pregi e limiti dell'istruzione di massa. Un'indagine

Andrea Graziosi

Da ascensore sociale a strumento di classificazione. La formazione scolastica e l’accesso all’università rivolto a platee sempre più ampie hanno grandi potenzialità ma anche conguenze notevoli sul piano politico, ideologico e psicologico

Non discuto qui di Italia, se non per fare qualche esempio a noi vicino. Sollevo piuttosto il grande problema, comune a tutte le società moderne mature (e quindi non alle società ancora nella fase di uno sviluppo più o meno miracoloso), rappresentato dall’inevitabile trasformazione di sistemi di istruzione diventati di massa anche ai loro livelli più alti (e quindi allargati a comprendere l’università), da strumento di promozione a filtro di classificazione sociale. 

Si tratta di un un filtro che continua a promuovere, ma al tempo stesso declassa, e produce così conseguenze notevolissime sul piano politico, ideologico e psicologico, oltre che sul rapporto tra i sessi. Benché su queste conseguenze si sia già accumulata una massa di dati e ricerche, si tratta di fenomeni ancora relativamente poco esplorati e su cui si è riflettuto poco. Le mie affermazioni vanno perciò intese come tesi, che sono prontissimo a modificare anche se mi sembrano abbastanza “stabilizzate”. Queste tesi fanno parte del tentativo di comprendere meglio la natura e il funzionamento della nuova modernità in cui viviamo, tanto diversa da quella in cui sono nato non solo perché ha sempre meno bambini e permette vite molto lunghe, ma anche perché al suo interno opera appunto, a tutti i livelli educativi, un grande filtro costituito da un sistema di istruzione di massa. 

Nei paesi di punta questo sistema esiste da meno di un secolo e in Italia da non più di qualche decennio. Malgrado ci sembri una cosa “normale”, dal punto di vista storico esso è quindi una assoluta novità. A parte qualche eccezione urbana, fino alla Riforma protestante l’alfabetizzazione è stata legata alle religioni del Libro: tra gli ebrei essa raggiunse molto presto quasi un 50 per cento largamente coincidente col sesso (maschile); tra i cristiani arrivava a un 15-20 per cento socialmente e sessualmente determinato, con punte maggiori nelle città e molto inferiori nelle zone rurali e nelle aree ortodosse; e tra i musulmani era di regola inferiore al 5 per cento, per quasi scomparire nelle società arcaiche. La Riforma pose le basi per la nascita dei primi grandi blocchi ampiamente (ma non subito e mai completamente) alfabetizzati, anche costruendo i primi sistemi “pubblici” di istruzione elementare tesi a salvare, attraverso la lettura della Bibbia, i bambini dall’opera corruttrice dell’agente di Satana sulla Terra, vale a dire il Papa, come si legge nelle disposizioni che li introducevano nelle colonie inglesi d’America.

 

L’idea di un’istruzione generale laica e obbligatoria (e quindi di massa ma solo a livello primario), figlia dell’Illuminismo, è stata realizzata per la prima volta in Prussia nel 1763, sistematizzata dalla Rivoluzione francese e attuata seriamente nella Germania che si riformava per combattere i francesi. Ma fino agli ultimi decenni del XIX secolo un’efficiente istruzione elementare di massa non esisteva nemmeno in Francia, per non parlare della neonata Italia, e l’accesso all’istruzione secondaria era un affare di classe, le cui eccezioni (spesso legate alla nascita dell’istruzione tecnica) permettevano anche per questo una veloce ascesa sociale. Solo in coincidenza con la Prima Guerra Mondiale apparvero, non a caso negli Stati Uniti, i primi germi di un sistema di istruzione di massa anche a livello secondario, con la generalizzazione di una high school profondamente trasformata e lo spostamento al college dell’istruzione liceale di tipo europeo. 

In Italia, dove nel 1913 gli studenti universitari erano solo 25.000, il vecchio e ingiusto sistema classista restò in piedi fino alla riforma del 1962 quando il centrosinistra introdusse la scuola media dell’obbligo sconvolgendo un mondo in cui un confine di classe e status divideva il 20 per cento dei giovani che continuavano gli studi dopo i 10 anni dall’80 per cento che passava all’istruzione professionale o abbandonava la scuola. Fu una vera rivoluzione che rese per la prima volta stabilmente alfabetizzata la grande maggioranza della popolazione, intaccandone le gerarchie sociali. E l’enorme progresso che ciò rappresentava mise giustamente in ombra l’iniziale e inevitabile degrado per allargamento del sistema scolastico prodotto da un’espansione tanto veloce. 

Il fenomeno si estese presto alla scuola media superiore e all’università, che passò dai 220.000 iscritti del 1957 ai 936.000 del 1975 e al 1.774.000 del 1997. Negli stessi anni la quota delle donne balzò dal 27 per cento a più della metà. Oggi il 60 per cento circa dei diplomati italiani (una percentuale inferiore a quella di inizio anni 2000) si iscrive subito a università che hanno circa 1,6 milioni di iscritti (un dato che risente della crisi demografica, oltre che sociale, ed è falsato dall’introduzione delle lauree magistrali), in netta maggioranza donne in quasi tutti i corsi di laurea.

Un sistema di istruzione di massa a tutti i livelli esiste insomma in Italia solo dalla fine del 900. La facilità con cui esso è stato accettato, malgrado i tanti problemi, testimonia di effetti riconosciuti come benefici da gran parte della popolazione e in particolare dalle donne. E’, se si vuole, una prova indiretta anche della popolarità intuitiva del concetto di “meritocrazia” come fondamento di un mondo “giusto”, posto da Platone, ribadito dagli illuministi e accettato persino dai 5 stelle italiani, malgrado il loro “uno vale uno”. Questa popolarità, e questa accettazione, sono state naturalmente alimentate dalle straordinarie opportunità che studiare apriva nella prima ed esplosiva fase di sviluppo del moderno, quando a studiare erano in pochi, e da quelle, ancora molto significative, della sua penultima fase. Dal momento della sua comparsa e per circa un secolo, fino cioè all’università di massa, il sistema di istruzione è stato infatti e soprattutto uno straordinario ascensore sociale.

La sua “massificazione” ha però inevitabilmente prodotto dei cambiamenti sostanziali. Certo, esso è ancora un formidabile strumento di miglioramento delle proprie condizioni, soprattutto ma non solo per gruppi prima subordinati, come le donne, per le quali più istruzione significa un miglioramento notevole della vita stessa. Ma proprio perché è aperto a tutti e quindi classifica tutti, non limitandosi a produrre una categoria distinta solo dall’aver studiato in società largamente semi-analfabete, esso fa anche altro, e lo fa in una società che è cambiata anche per un’altra, e altrettanto fondamentale, ragione. Mi riferisco al brusco passaggio da un mondo tradizionalmente dominato, anche in Europa, dalla piccola azienda famigliare, specie ma non solo contadina, e da un ceto che doveva ricchezze e privilegi alla proprietà, a una società dominata dal lavoro dipendente. Certo i proprietari, spesso ricchissimi, esistono ancora, e ancora resta un settore di piccola produzione autonoma, urbana e rurale. I redditi della grande maggioranza della popolazione sono però oggi determinati dalla posizione occupata nelle amministrazioni e aziende pubbliche e private, e dai servizi che si è in grado di offrire loro, e quindi – di regola – dalle capacità acquisite grazie all’istruzione. 

A eccezione dei relativamente pochi ricchissimi e di chi ha, o avrà, un’azienda propria, chi vi entra (e lo fa quasi il 100 per cento dei giovanissimi) vedrà quindi alla fine del percorso la sua posizione sociale e il suo reddito dipendere in larga parte dalla durata e dal successo dei suoi studi. Si tratta di un mutamento radicale anche in termini di direzione e flussi della mobilità sociale. Nella vecchia società semi-analfabeta dominata dalla proprietà, quella discendente era relativamente rara e legata a comportamenti eccentrici o sfortune straordinarie, e quella ascendente garantita dall’ingresso in un sistema di istruzione ancora relativamente di élite. Oggi si calcola che in Europa occidentale circa il 30 per cento (in Italia il 26,8, in Germania il 28, in Svizzera il 32) dei figli delle famiglie con redditi nel quartile superiore scivoleranno nei due quartili inferiori. Negli Stati Uniti, i dati di questo scivolamento (calcolati in quintili e non in quartili) e la loro disparità tra i maschi in base al colore (a conferma dell’importanza del genere, i dati relativi alle bambine bianche e nere sono molto più omogenei) sono ancora più impressionanti: quasi il 60 per cento dei bambini bianchi e più dell’80 per cento di quelli neri nati in famiglie ricche sono destinati nel corso della vita a finire in gruppi sociali inferiori e solo il 39 per cento dei bianchi e il 17 per cento dei neri resterà nel gruppo dei ricchi. Se si guarda invece ai bambini bianchi e neri nati in famiglie povere, rispettivamente il 54 e il 77 per cento di essi resterà nelle due categorie inferiori, il 40 e il 21 per cento salirà nelle due successive, e solo il 10 e il 3 per cento raggiungerà la ricchezza.

Questa mobilità sociale discendente è certo il frutto della fine del periodo esplosivo della crescita, che in Europa occidentale si può far risalire agli anni Settanta del 900, del rallentamento e della stagnazione che lo hanno seguito, nonché delle trasformazioni globali che hanno minato la posizione un tempo dominante dell’Europa. Essa è però anche il prodotto naturale di un sistema di istruzione massificato che classifica tutti, assegnando ciascuno (con l’evidente eccezione dei proprietari) a specifiche fasce di reddito. In altre parole non tutti i figli e le figlie dei ceti disagiati riescono a profittarne per migliorare la loro sorte, e non tutti quelli di avvocati, medici, ingegneri, tecnici altamente specializzati, dirigenti statali o d’azienda, e professori universitari riescono a mantenere la posizione dei loro genitori, anche se naturalmente godono di notevoli vantaggi di partenza. 

Se ci chiediamo invece chi sono i favoriti “naturali” di questo grande e nuovo sistema di classificazione, la risposta – eccezioni a parte – non sembra difficile: esso premia in media i giovani relativamente più seri, studiosi e disciplinati (il che coincide con tratti psichici legati all’assenza di disturbi del carattere o della personalità, in parte innati o “accesi” da eventi particolari), oltre che quelli che la fortuna ha dotato di talenti più o meno grandi. E’, se vogliamo, il trionfo sia pure imperfetto, di una razionalità altrettanto imperfetta, che premia chi si comporta meglio e saprà meglio fare. E’ ovviamente un bene che sia così, ed è quello che porta molti a vedere nel premio al “merito” il fondamento stesso di un mondo giusto. L’istruzione di massa a tutti i livelli, che non può e non deve rinunciare a una classificazione che è, accanto all’incivilimento, un suo compito essenziale, indispensabile al buon funzionamento della società (chi vuole insegnanti o medici ignoranti, cattivi ingegneri, dirigenti impreparati e autoritari, impiegati incompetenti e scortesi ecc.?), è quindi prima di tutto una conquista che va difesa e per quanto possibile migliorata. Questo però non deve impedirci di vederne i problemi e le conseguenze, incluse quelle sgradevoli. 

Una di esse è la possibile trasformazione del merito in una ideologia gerarchica e potenzialmente “razzista” (io guadagno di più e vivo meglio perché me lo merito, come tu meriti il poco o il nulla che hai), su cui spero di tornare in futuro. L’altra, più reale, è una stratificazione sociale, sessuale e psicologica di tipo nuovo, di cui occorre avere coscienza per affrontarne i problemi. Pensiamo per esempio a chi l’istruzione di massa esclude, per vari motivi: provenienza da ambienti disagiati certo, ma anche disturbi o problemi personali, o più semplicemente preferenze per ambiti che non sono quelli legati all’istruzione. Arriviamo così alla produzione, all’interno della modernità matura stessa, di forti aree di disagio. In Italia, per esempio, malgrado un sistema scolastico certamente non rigoroso, non riesce a prendere un diploma circa il 15 per cento degli iscritti alle superiori, con forti variazioni regionali e un altro 30-40 per cento di chi ce la fa non si iscrive direttamente all’università (cosa che alcuni fanno in seguito). Quasi il 50 per cento dei giovani resta quindi fuori dall’università. Rinunciare a questa prima, ancorché indiretta, opera di classificazione abbassando standard indispensabili al buon funzionamento sociale (standard che sono spesso già troppo bassi per mantenere la nostra posizione nel mondo) sarebbe ovviamente sbagliato, perché danneggerebbe tutti. Ma certo bisognerebbe cercare di ridurne le dimensioni, e affrontare i problemi che essa genera, abbandonando retoriche false e irritanti (specie alle orecchie di chi non “riesce” e si sente quindi colpevolizzato e emarginato) come quella di un’università “per tutti” che è un obiettivo irraggiungibile (a meno di falsificare i processi di apprendimento), e questo a prescindere dalle forti differenze di impegno richieste dai vari corsi che essa offre.

E’ inoltre evidente che tra quanti saranno tagliati fuori dai redditi stabili e relativamente elevati garantiti dall’istruzione superiore prevalgono i maschi, alcuni dei quali troveranno però per fortuna successo negli affari, nella musica, nello sport ecc. Sarebbe quindi sbagliato associare strettamente il mancato raggiungimento di un diploma superiore o della laurea all’area del disagio. Ed esso non andrebbe stigmatizzato, anche perché si può avere un lavoro gratificante, un buon reddito e uno stile di vita piacevole e condiviso anche essendone privi.

Resta però il fatto che le percentuali dei maschi che non posseggono le qualità richieste dall’istruzione moderna sono rilevanti: secondo Alma Laurea, per esempio, in Italia le ragazze tendono a intraprendere più spesso un percorso universitario anche se non provengono da famiglie con genitori laureati, sono in media più studiose dei coetanei maschi e hanno voti di laurea più brillanti (magari per poi guadagnare, ancor oggi ma chissà domani, meno di maschi che hanno preso voti peggiori). Nel 2021 le donne erano così quasi il 60 per cento dei laureati, un fenomeno anticipato da quanto accade alle superiori, indipendentemente dal tipo di istituto: anche qui le studentesse prendono voti più alti, ripetono meno l’anno, fanno più esperienze internazionali e sono più impegnate in attività di carattere sociale. A giudicare da questi dati, il Moderno maturo sembra insomma una società più adatta alle donne di quelle che lo hanno preceduto, così come le donne sembrano più adatte a esso, un fenomeno che alcuni acuti osservatori avevano già cominciato ad osservare ragionando nel 19esimo secolo sulla vita urbana rispetto a quella rurale. 

Come indicano con chiarezza da circa due decenni i dati relativi agli Stati Uniti e al Regno Unito, il sistema di istruzione integrale di massa ha anche un impatto notevole sulle preferenze ideologiche e le scelte elettorali di chi lo frequenta, e quanto e come. I college graduates tendono a votare più compattamente per i democratici di cui hanno già modellato il profilo, mentre coloro che hanno solo un diploma concentrano i loro voti sui repubblicani. E questa tendenza è significativamente più forte tra quelli che hanno titoli di studio superiori al college, di cui più della metà (54 per cento) sostengono valori “consistentemente liberali o principalmente liberali” e solo il 24 per cento consistentemente o principalmente conservatori. Nel Regno Unito il voto per la Brexit ha evidenziato tendenze simili e più in generale gli studi sembrano dimostrare che nei paesi “maturi” livelli più elevati di istruzione corrispondono ad atteggiamenti e preferenze democratiche e di sinistra, una correlazione che non sembra essere vera per i paesi dove l’istruzione superiore non è ancora generalizzata. 

Altre ricerche confermano che titoli più alti di studio tendono a ridurre la simpatia per l’autoritarismo e i pregiudizi razziali, ma nutrono anche la preferenza per politiche economiche più rigorose e ostili all’aumento dell’imposizione fiscale, un tempo associate con la destra, come se l’aver “meritato” un reddito più alto grazie al successo negli studi indebolisse il senso di colpa caratteristico di una parte di quanti dispongono di una ricchezza ereditata e non “guadagnata”. Il fenomeno potrebbe essere un’anticipazione delle possibili derive di una “meritocrazia” i cui protagonisti non riescono a capire perché occorra dare a chi andava a ballare o giocava a pallone o perdeva il suo tempo “mentre io studiavo”. In Europa continentale la situazione è (ancora?) meno chiara e la tendenza è più debole, ma essa sembra presente, benché in maniera embrionale, anche in Italia.

Sembra inoltre possibile ipotizzare che il funzionamento del nuovo sistema di istruzione integrata di massa abbia conseguenze notevoli anche sulle culture e le rappresentazioni della destra e della sinistra. I sostenitori più attivi di Trump e i filmati degli invasori del Campidoglio del 6 gennaio 2020 ci restituiscono un’immagine del militante di destra più vicina a quella di un sovversivo e di una persona relativamente emarginata che a quella di un sostenitore tradizionale di una “maggioranza silenziosa” legge e ordine. Al tempo stesso tante scelte e tante candidature della sinistra sembrano più adatte a un blocco moralista, composto di persone per bene (anni fa un vecchio amico si lamentava incredulo delle ripetute candidature di prefetti e magistrati da parte di partiti che un tempo si volevano rivoluzionari). E’ lecito chiedersi se la formazione di quello che ho chiamato altrove “un bacino reazionario di massa” (dove “reazionario”, un termine di cui non sono soddisfatto, non ha la sua tradizionale coloritura, ma esprime piuttosto tendenze nuove ancorché spesso sgradevoli) trovi anche qui una sua fonte, che si aggiunge a quelle, certo più importanti, legate all’invecchiamento della popolazione, alla reazione all’immigrazione o alla società delle aspettative decrescenti.

Come affrontare i problemi che ciò pone a chi crede ancora nella razionalità e nel progresso sarà, spero, il tema di un altro articolo, ma è subito evidente l’importanza di riuscire a riconoscere tutti e a parlare con tutti, forti e deboli, promossi ed emarginati, e specialmente agli “indeboliti” dalla nostra modernità matura, un gruppo che non comprende solo i prodotti più fragili delle sue fantastiche conquiste, vale a dire i vecchi moltiplicati dal prolungamento dell’attesa di vista.

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