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Cultura e divisioni

I programmi di storia sottratti ai pedagogisti e restituiti agli storici. Bene

Giovanni Belardelli

Le novità nel mondo scolastico partono dal rifiuto di una didattica in cui il docente non trasmette nozioni e dalla convinzione che serva tornare a insegnare fatti, date e personaggi. Mettendo al centro la storia europea, anche a beneficio dei tanti giovani immigrati che frequentano le nostre scuole

La discussione sui programmi di storia (lo so, si chiamano indicazioni nazionali, così come i presidi si chiamano dirigenti scolastici, ma mi si consenta di utilizzare il linguaggio comune) è stata particolarmente sgangherata, con critiche formulate per partito preso e con una pregiudiziale attribuzione di intenti “sovranisti” agli storici che li hanno redatti. C’è stato anche chi, come Andrea Giardina, prima ne ha dato un giudizio positivo e poi ci ha ripensato. E neppure sono mancate critiche particolarmente fantasiose, tipo voler affiancare alla lettura della Bibbia quella del Signore degli anelli di Tolkien, “libro cult della presidente del Consiglio Giorgia Meloni”, come ha maliziosamente scritto su queste pagine Giorgio Caravale. Si tranquillizzi, Tolkien almeno nei programmi di storia non c’è, e neppure le saghe nordiche. Invece, per dare un’idea ai bambini della primaria delle “radici della cultura occidentale” si suggerisce di ricorrere “in forma molto semplificata” a Bibbia, Iliade, Odissea, Eneide. A dire il vero, la responsabilità di certi interventi è attenuata dal fatto di basarsi soltanto su un’intervista del ministro. Ma è necessario ricordare che è meglio aspettare di avere un testo prima di commentarlo?

 

                                   

 

C’è solo da sperare che la discussione possa essere di qualità migliore quando i programmi saranno disponibili. Si potrà allora constatare come contengano elementi di novità e anche di qualche pregio, come mi permetto di osservare avvertendo che sono parte in causa avendo fatto parte della commissione che li ha redatti. Ci sono novità nei contenuti, come ad esempio nel caso della storia greca e della storia romana, per solito presentate in successione cronologica mentre invece si tratta di storie per molti aspetti intrecciate a partire dalla colonizzazione greca dell’Italia meridionale, che precede largamente l’affermazione di Roma.

Ma ci sono soprattutto novità nell’ispirazione generale, a cominciare dal fatto – ed è stupefacente che nessuno lo abbia notato –  che l’impostazione dei programmi è stata sottratta ai pedagogisti e restituita a degli storici (così come è stato fatto per ogni altra disciplina). E’ una novità decisiva perché implica ripristinare l’assoluto rilievo dei contenuti dell’insegnamento, il cosa si insegna rispetto al come si insegna, in controtendenza rispetto alla cosiddetta didattica delle competenze che l’ha fatta da padrona per anni nelle commissioni e nei corridoi del ministero dell’Istruzione. Chi ha seguito la deriva pedagogistica imposta all’insegnamento scolastico dagli “esperti” di didattica della storia conosce l’idea balzana, recepita in passato dalle indicazioni  ministeriali, secondo la quale il docente dovrebbe insegnare a bambini e ragazzi a maneggiare la cassetta degli attrezzi dello storico e non già trasmettere nozioni (cosa che viene bollata come “didattica trasmissiva”).

Ebbene i nuovi programmi sono partiti proprio dal rifiuto di una prospettiva del genere, nella convinzione che bisognasse tornare a insegnare la storia, dunque fatti, date, personaggi; senza nozionismo ma sapendo distinguere ciò che è essenziale da ciò che non lo è, sapendo cogliere nessi causali, fratture, concetti e così via. Sospetto che nei fatti molti insegnanti già facessero questo in barba alla didattica delle competenze. Se è così, vorrà dire che ora si sentiranno più legittimati nel loro lavoro. 

I nuovi programmi pongono espressamente al centro la storia italiana ed europea, “rinunciando preliminarmente all’ambizione enciclopedica di parlare della storia universale, che vorrebbe dire necessariamente occuparsi un poco, o pochissimo, di ogni cosa”. E qui non si può non chiedere ai critici: ma scusate, non è quello che si è sempre fatto, basta aprire qualunque manuale, non potendosi dare all’America precolombiana lo stesso spazio dell’Europa carolingia? Dovendo scegliere, cos’altro dovremmo mettere mai al centro se non la storia italiana (e prima ancora quella greca e romana) e quella europea in cui si è formata la nostra cultura, la storia che ci fa essere quelli che siamo? Le scuole sono oggi frequentate da tanti giovani immigrati o che provengono da altre culture, è vero; ma proprio chi ha a cuore la loro integrazione dovrebbe sostenere la necessità che apprendano in primo luogo la storia e la cultura della porzione di mondo in cui si trovano a vivere. 

La storia italiana o occidentale (aggettivo questo secondo che per alcuni è ormai una parolaccia, evidentemente dimentichi di dove e come è nata la democrazia moderna) secondo un’opinione mainstream sarebbe qualcosa da abbandonare in virtù delle più aggiornate correnti storiografiche che sottolineano gli intrecci tra culture fin dal medioevo. La cosa non è proprio inedita per la verità e molti l’hanno appresa da bambini sulle pagine del Milione di Marco Polo. Ed è nota a chiunque si occupi di storia anche senza chiamarla global o world history come adesso usa. Ma c’è una questione decisiva e cioè che, come un panorama si osserva sempre da un punto particolare, così si fa storia – per quanto vario e ampio possa essere l’ambito geografico e tematico di studio – da un punto di osservazione particolare, correlato a una determinata cultura e a un contesto specifico. Quando si scrive di storia, il contesto o il punto di vista globale, cioè dell’umanità, semplicemente non esiste, non è un punto di vista e rappresenta semmai una mera costruzione ideologica.  

 

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