La sfida al cielo della modernità
Lezioncine cinesi (e da Milano) sulla manifestazione di potenza dei grattacieli
Due anni fa a capodanno un incendio ha avvolto venti piani del grattacielo vicino all’edificio più alto del mondo, il Burj Khalifa, a Dubai, un capolavoro di ingegneria che arriva a 829,8 metri di altezza. Se è vero come ha scritto l’architetto americano Scott Johnson in “Tall Building: Imagining the Skyscraper” (Balcony Press) che “non c’è artefatto più sintetico e onnicomprensivo di un grattacielo nel nostro mondo contemporaneo” – per costruirlo non basta un artista ma serve la collaborazione di acciaieri, disegnatori, banchieri ecc. – è anche vero che la sfida al cielo rappresenta da secoli una manifestazione di potenza economica. E nell’anno che si sta per concludere sono stati costruiti 144 grattacieli con altezza superiore ai 200 metri – in dieci anni è triplicato il numero di città che ospitano un “supetall building” – e oltre la metà di questi sorgono in Cina, che già vanta il quarto edificio più alto del mondo Ping An Finance Center. La densità della popolazione e migliaia di persone che ogni settimana si trasferiscono nei centri urbani costringe ad abitare in verticale. Come nota l’analista americano James Hansen nella sua newsletter, l’Europa non svetta nelle classifiche: per ragioni culturali storicamente è evitata la costruzione di edifici civili più alti delle cattedrali. Tuttavia se dalla presenza di grattacieli si deduce la vocazione di un territorio ad adeguarsi al presente (e al futuro) Milano non sfigura con la Torre Isozaki di Allianz (209 metri) e con la Torre di Unicredit che con il suo pinnacolo è il primo edificio del paese per altezza (231 metri). Ci sono lezioncine cinesi su cosa significa stare al passo con i tempi, ma la capitale-che-funziona d’Italia non ha niente da imparare.
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