"L'ultima notte dei fratelli Cervi"
Settantacinque anni fa furono fucilati dai fascisti i sette fratelli che si opposero al regime. Un libro
"Scendevano lungo la via dei Prati Vecchi, padre e figlia affiancati. La cuffia marrone di lei nascondeva i capelli e la gonna a pieghe, di un tessuto violaceo, sventolava a ogni giro di pedale. La ragazza aveva uno sguardo scuro, intento, come per un pensiero grave”. Nel dicembre del 1943, nella Bassa reggiana, due gappisti tendono un agguato a un piccolo gerarca fascista locale. Lui muore, lei resta solo ferita. Ma a sparare è stato solo uno dei due partigiani. L’altro interviene in modo decisivo a salvare il compagno, preso di sorpresa dalla reazione della ragazza. Ma non è riuscito a fare fuoco su un altro essere umano. Così entra in scena Archimede. Nome di battaglia, come si usa tra i partigiani. Figlio di un vecchio contadino socialista che però è angosciato al pensiero che tornino gli odi del primo Dopoguerra; un fratello maggiore operaio, che sogna di andare in Germania a rintracciare una ragazza di cui si è innamorato; una confusa fede comunista, alimentata dalle letture che gli ha dato un calzolaio. “Abbastanza giovane da essere cresciuto tra le parole d’ordine del regime, ma anche abbastanza anziano da aver colto in famiglia l’eco di una verità diversa, più antica di quella fascista. Archimede e tanti come lui, sono chiamati a prendere decisioni al buio, a rispondere con un sì o un no ad ambigui maestri, pronti a esigere tutto senza dare niente in cambio. La loro, insomma, è la generazione più sfortunata”. Archimede, in particolare, non riuscirà mai a superare la ripugnanza a uccidere; per lo meno, a uccidere a freddo. Ma proprio questa ripugnanza lo induce a un atteggiamento di dubbio sempre più sistematico che lo porta infine a scoprire i retroscena della terribile storia con cui è andato a incrociarsi.
I sette fratelli Cervi, coloro che la propaganda del Pci dopo la guerra trasformerà in eroi esemplari del nuovo tipo di militante e cittadino voluto dal partito, (l’autore, giornalista del Corriere della Sera e saggista, scrive nel prologo del libro che “questi otto personaggi divennero gli attori inconsapevoli di una sacra rappresentazione composta e messa in scena dopo l’eccidio. Fu il libro di memorie ‘I miei sette figli’, attribuito ad Alcide – in realtà confezionato dallo scrittore e sceneggiatore Renato Nicolai ma voluto dal gruppo dirigente comunista – a trasformare la storia in leggenda”) in realtà avevano avuto a loro volta una ripugnanza a uccidere uguale alla sua. Forse perché al comunismo sono arrivati dopo essere stati allevati nella fede cattolica della madre, e nella fede socialista prampoliniana anch’essa tinta di cristianesimo evangelico del padre. Per questo il Pci li ha isolati come “anarchici”, e non solo non ha voluto salvarli quando questi hanno chiesto aiuto. Addirittura, come scoprirà Archimede alla fine, sono stati traditi e denunciati da un infiltrato nei comandi fascisti che poi diventerà un pezzo grosso della Resistenza e del partito. Salvo poi diventare a sua volta un deviazionista.
Quello di Dario Fertilio è un romanzo e Archimede è un personaggio immaginario. “Una storia fra tante. Chi ha vissuto a quel tempo e in quei luoghi, lo sa per esperienza diretta”. Ma i dubbi sulla vera storia dei fratelli Cervi ci sono davvero, e ne danno conto i due saggi storici che precedono e seguono il romanzo, oltre alla bibliografia che vi viene anche acclusa. Tuttavia, dopo aver raccontato la costruzione del mito dei fratelli Cervi, Fertilio avverte che il suo racconto non ha “lo scopo di accreditare una verità eretica al posto di quella ortodossa”. Né “di ingaggiare una battaglia di documenti” né di “scalzare un mito distruggendo il suo ethos”.