Fumarsi un referendum

Redazione

La raccolta firme per la legalizzazione della cannabis prosegue al ritmo  di 100 mila nominativi al giorno. Ma oltre che parlare di firme tocca parlare dei contenuti (e del contenitore)

 

Con il referendum sulla cannabis i Radicali hanno decretato la loro morte

C’era una volta il Partito Radicale. C’erano una volta le battaglie radicali. C’era un tempo in cui queste due realtà, le battaglie e il partito, erano perfettamente sovrapponibili, e quel tempo è finito. E’ finito da molto, anzi, probabilmente da quel Congresso alla fine degli anni 80 in cui il Partito Radicale ha deciso di non esistere più in quanto tale, di non presentarsi più alle elezioni (cosa successa anche precedentemente, in verità) ma di diventare un’altra cosa. Tutto questo ha retto, con qualche difficoltà, fino alla morte del suo leader, che più che un leader era un capo religioso, un paradosso vivente: il partito più anticlericale di tutti (o meglio, l’unico) era retto da una figura papale, al limite dell’infallibilità. Le lotte di Marco Pannella erano le lotte del Partito Radicale e non il contrario, che lui ne fosse il segretario o meno. Radio Radicale, ancora oggi, è la radio della Lista Marco Pannella, ancora oggi nel suo palinsesto c’è la voce di Marco Pannella che sovrasta tutte le altre.

Ed è forse solo la radio ciò che resta di tutto questo, una radio che spesso parla al passato, sfruttando il preziosissimo ed enorme archivio, e dove al di là dell’ineccepibile servizio pubblico fatto di processi, sedute parlamentari e congressi di (tutti i) partiti, si ascoltano ancora le voci radicali come se fossero una sola, ma il problema è che non è così. Radio Radicale è ancora una radio necessaria ma rappresenta, purtroppo molto bene, quella che con assoluta mancanza di senso del ridicolo viene chiamata la “Galassia Radicale”. Una “Galassia” grande come un quartiere poco affollato, come un condominio, dove le sigle sono più degli elettori, un florilegio di realtà minuscole e agguerrite non solo contro un nemico comune, ma anche l’una contro l’altra. Così può succedere che io, iscritto al Partito Radicale alla morte e in onore di Massimo Bordin, mi accorga in un giorno di settembre che il “mio” partito non appoggi la campagna referendaria per l’abolizione della legge sulla cannabis. Una campagna che era uno dei capisaldi della lotta di Pannella, che arrivò a veri e propri episodi di disobbedienza civile addirittura regalando un panetto di hashish a una esterrefatta Alda D’Eusanio in diretta sulla televisione di stato.

Ma oggi no, oggi, sono parole del segretario, il Partito Radicale è concentrato sui referendum sulla giustizia, non c’è il tempo per approfondire i quesiti referendari, siamo impegnati su altro. Non è vero, naturalmente, quel che è vero è che le lotte fratricide tra le varie espressioni della “Galassia Radicale” (Dio, che ridere) sono al loro culmine, che tra silenzi imbarazzati e ripicche adolescenziali ognuno pensa solo al suo orto. Noi non appoggiamo questo e loro non appoggiano quest’altro. Quando ho scritto su Twitter che il Partito Radicale non appoggiava questa raccolta, molti mi hanno scritto che no, non era vero, che nel comitato promotore c’erano anche loro:“I Radicali italiani”. Vaglielo a spiegare, che “Partito Radicale” e “Radicali italiani” sono due cose diverse e si tirano pure i capelli. Alla mia minaccia di strappare la tessera, poi, ha subito risposto il profilo di +Europa cercando il colpo di mercato: “Vieni da noi, iscriviti da noi”.

Anni fa venne pubblicato un libro dal titolo “Volevo solo vendere la pizza”, era la storia di un imprenditore italiano con un sogno irrealizzabile: aprire una pizzeria rispettando tutte le leggi e gli obblighi burocratici, operazione che nel nostro paese risulta impossibile, e questo lo so per esperienza personale. Ci sono talmente tante leggi e leggine da rispettare che a volte per rispettarne una ne devi trasgredire un’altra. Ecco, ora sarebbe il caso di scrivere: “Volevo solo essere radicale”. Per “essere radicale” nel 2021 hai due possibilità: o ti iscrivi a i Radicali italiani, l’Associazione Luca Coscioni, il Partito radicale, +Europa, Non c’è Pace senza Giustizia, Nessuno tocchi Caino, la Lista Pannella e, dulcis in fundo, l’associazione per la lingua Esperanto (secondo me ne ho dimenticato qualcuno), oppure ci rinunci, appoggi qualche battaglia, con l’amarezza in bocca di chi vede un patrimonio di idee disintegrarsi di fronte alla vanità di pochi, alla stupidità di altri, e pensi che Marco Pannella, come quasi tutti i capocomici della sua generazione, è stato bravo in tutto tranne che nell’allevare non solo un suo successore, ma una sua successione. Divorando i suoi figli, prediligendo i mediocri, soffocando i migliori. Marco Pannella ha fatto diventare grande il Partito Radicale e poi se lo è portato con sé, lo si capisce dal fatto che ogni domenica, nel 2021 a cinque anni dalla sua morte, sulla Radio dei Radicali potete ascoltare lui che discute con Bordin. Evidentemente i vivi, quelli che sono rimasti, sono consci di essere meno interessanti.

PS. un referendum sulla droga si è già fatto vent’anni fa. E si è già vinto. Non cambiò assolutamente nulla, lo aggiungo così, per gli ottimisti, quelli che davvero pensano si possa aprire una pizzeria.
 

 

Una frode più che un referendum

E’ una frode già nella denominazione: si chiama “referendum cannabis legale”, ma in realtà i due terzi del quesito riguardano ogni tipo di droga. Nel momento in cui propone di eliminare la parola “coltiva” dall’art. 73 comma 1 del testo unico sugli stupefacenti, esso rende lecita la coltivazione di qualsiasi tipo di sostanza, incluse quelle comunemente definite “pesanti”; e quando immagina di abrogare l’art. 75 lettera a), esso elimina la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida in relazione all’uso e alla detenzione non penalmente rilevante: il che vuol dire che non solo chi abbia fumato uno spinello, ma anche chi si sia strafatto di cocaina non avrà problemi nel porsi alla guida di un veicolo.

I promotori del referendum dovranno poi spiegare come mai se vado a cena da amici e bevo un paio di bicchieri di vino non posso rientrare a casa conducendo la mia auto, per via delle pesanti – e giustificate – sanzioni alla guida in stato di ebbrezza; se invece sniffo coca non ho problemi. Una frode con effetti criminali: per averne idea si consultino la relazione annuale della presidenza del Consiglio sulla tossicodipendenza in Italia e i dati della polizia stradale sulla connessione fra uso di droga e incidentistica stradale, con esiti spesso mortali.

L’approvazione del quesito farà naufragare, almeno in parte, figure di reato introdotte con enfasi in anni recenti, come l’omicidio stradale, che ha una specifica aggravante correlata all’alterazione derivante dall’assunzione di droga, oltre che lasciare ancora più vittime sull’asfalto. Poi c’è il terzo del quesito, che elimina qualsiasi sanzione anche per lo spaccio dei derivati della cannabis: quando, più di 30 anni fa, ho iniziato a fare il giudice penale la percentuale media di principio attivo riscontrabile nelle sostanze sequestrate – il c.d. Thc, quello che provoca l’effetto drogante – andava dall’1 all’1,5 per cento; oggi la media è di dieci volte tanto, con punte anche del 25, 30 e più per cento. Qual è la “leggerezza” di una simile sostanza? Rendiamo ancora più semplice distruggere se stessi e porre a rischio il prossimo?

 

Norme della Repubblica alla mercé di qualche migliaio di click

Libera canna in libero stato. Lo stabilisca in modo esplicito una legge della Repubblica votata dal Parlamento. Perché il proibizionismo sulla cannabis è odioso e illiberale ma il bazooka del referendarismo puntato su norme sanitarie ci fa scivolare nella democrazia plebiscitaria, su un tema che la pandemia ha reso oggetto di scontro ideologico e terreno di scorrerie antiscientifiche, invece che riconoscere il sacrosanto principio dell’autonomia e della laicità della scienza medica.

Non vorremmo doverci trovare a votare per un referendum sull’abolizione del paracetamolo o di qualche articolo della legge sul fumo nei locali pubblici. La doverosa semplificazione della raccolta delle firme previste dalla Costituzione, grazie all’utilizzo delle tecnologie digitali che hanno ridotto i costi di transazione, ha sbilanciato il delicato equilibrio voluto dai costituenti. Essi avevano stabilito una soglia (500 mila firme “fisiche”) tale da richiedere un importante sforzo organizzativo per arrivare a invocare uno strumento democratico, tanto prezioso quanto fragile, come il referendum abrogativo. Internet ha necessariamente scompaginato quell’equilibrio, e ora – visto che con le firme digitali si raccolgono centinaia di migliaia di sottoscrizioni in pochi giorni e senza particolare sforzo – serve usare quello strumento con un granello di sale.

Altrimenti, con un paio di post sui social media, la geniale Chiara Ferragni sarebbe in grado di organizzare un referendum al mese. Amici libertari, guardiamoci dal far rientrare dalla finestra dei referendum online quella stessa distopia della disintermediazione politica che stiamo faticosamente facendo uscire dalla porta di questa stagione draghiana. Le ragioni antiproibizioniste richiedono doverose battaglie culturali, che però vanno vinte nella coscienza dei cittadini e nei voti in Parlamento. Solo così diventeranno radicate conquiste civili, e non rischieranno di ridurre – come avrebbe voluto fare la piattaforma Rousseau – le norme della nostra Repubblica alla mercé di qualche migliaio di click.
 

 

Allargare gli spazi di libertà individuale si può

Fino a che punto lo stato può spingersi nel proteggere i cittadini da se stessi? Il referendum sulla cannabis obbliga la classe politica italiana a rispondere. Per giustificare il proibizionismo bisognerebbe dimostrare che i benefici sociali ne superano i costi. L’esperienza americana con la legalizzazione dice che non è così. Da quando il Colorado e lo stato di Washington hanno legalizzato l’uso ricreativo della marijuana nel 2012, nove stati (Alaska, Oregon, California, Nevada, Maine, Vermont, Massachusetts, Michigan, e Illinois) e il distretto di Columbia li hanno imitati, mentre altri quattro (New Jersey, South Dakota, Arizona e Montana) si sono aggiunti nel 2020. E’ esploso il consumo di cannabis? No. E’ aumentata la microcriminalità? No. Si sono moltiplicati gli incidenti stradali? No. In pratica, l’evidenza conferma che la società non ha nulla da temere se taluni suoi membri fumano legalmente uno spinello. Se non c’è motivo di mettere dei paletti, allora bisogna avere il senso di responsabilità di allargare gli spazi di libertà individuale.

 

Rendere le droghe più libere non è un buon affare

Riccardo Magi, presidente di +Europa, è entusiasta per l’afflusso di firmatari per il referendum sulla depenalizzazione della cannabis. In effetti 320 mila adesioni in soli tre giorni sono davvero moltissime e questo non lascia dubbi sul raggiungimento del mezzo milione richiesto per sottoporre il quesito prima alla Cassazione e poi, se ammesso, all’elettorato. D’altra parte questa affluenza straordinariamente rapida risulta meno sorprendente se davvero, come dice lo stesso Magi, i consumatori di Cannabis sono sei milioni. In ogni caso bisogna riflettere attentamente sull’effetto che avrebbe la depenalizzazione, anche amministrativa, per il consumo e della produzione “per uso personale” della cannabis, che peraltro sarebbe difficilissimo controllare.

Si verificherebbe una situazione in cui il consumo è pienamente lecito ma la vendita resta un reato. Si dice che questa sarebbe una scelta antiproibizionista, anche se tecnicamente è vero il contrario. Il più celebre dei proibizionismi, quello dell’alcol vigente nell’America tra le due guerre mondiali, non condannava il consumo ma la distribuzione degli alcolici, esattamente come accadrebbe ora con la cannabis. Si sa com’è andata allora, e non c’è ragione di credere che ora sarebbe diverso. Secondo molti esperti il consumo di droghe leggere è l’anticamera che porta poi a quelle pesanti e per questo è reputato assai pericoloso.

Altri sostengono che sarebbe la contiguità con l’ambiente dello spaccio a favorire questo fenomeno, ma il referendum non cambierebbe questa condizione. E’ più che lecito nutrire dubbi sull’effetto concreto di questa proposta, come su quella della legalizzazione dell’eutanasia attiva. Il mondo descritto dai Radicali è composto da persone mature e responsabili i cui comportamenti derivano soltanto dalla libera scelta senza condizionamenti, invece purtroppo non è così, soprattutto quando si parla di consumatori di droga o di persone disperate che hanno perso la speranza nella vita. E’ ancora ragionevole chiedersi se si può aiutarle a uscire da queste spirali o è meglio abbandonarle a se stesse nell’illusione di renderle più libere?
 

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