#Pechino2022 Perché il Comitato olimpico guarda sempre più verso l'Asia
Roma. Pechino non ha la neve, non ha skilift né piste da bob. Ma agli 85 membri del Comitato olimpico internazionali riuniti nell’umida Kuala Lumpur, in Malaysia, poco importa. Come previsto, il presidente Tomas Bach ha estratto dalla busta il nome della capitale cinese. Sarà qui che, nel 2022, si terranno i giochi invernali. La partita pareva già chiusa in partenza, almeno da quando il potentissimo sceicco kuwaitiano Ahamd al Fahad al Sabah, presidente del Comitato olimpico asiatico e – soprattutto – uomo capace come pochi di raccogliere voti, aveva fatto sapere al mondo che lui, il voto, l’avrebbe dato a Pechino. Eppure la sconfitta Almaty, che almeno dalle montagne kazake è circondata, e la cui candidatura era naturalmente sostenuta da Mosca, si è difesa bene: è finita 44 a 40, tra mille problemi elettronici che hanno costretto i membri del Cio a tornare all’antico e votare tramite schede di carta. Il voto di ieri è storico: per la prima volta, la stessa città ospiterà sia un’edizione estiva dei giochi sia una invernale. Per Pechino, poi, il record è doppio, visto che le faraoniche Olimpiadi le aveva celebrate solo nel 2008.
La decisione presa a Kuala Lumpur certifica che ormai, quando il resto del mondo rinuncia per mancanza di soldi o per l’opposizione più o meno furente dei cittadini (non solo Boston, ma anche Oslo, tanto per fare un esempio), il club elitario dei grandi ciambellani dello sport planetario guarda a oriente, dove sono certi di non sbagliare. Il governo cinese si è tenuto basso questa volta, e ha detto che spenderà solo 3,9 miliardi di dollari per l'appuntamento del 2022 (a Sochi Vladimir Putin ne stanziò cinquanta), ma il triangolo asiatico tra Corea, Tokyo, Pechino affascina e determina mercati, figuriamoci il Comitato olimpico. E l'ondata di boicottaggio subìta da Pechino nel 2008 è durata il tempo di un centometrista.
I parrucconi del Cio sanno che lì i soldi arrivano, gli sponsor sono assicurati, i governi finanziano i grandi eventi e i ritardi nella costruzione delle infrastrutture o nella bonifica degli impianti – a Rio de Janeiro, dove si giocherà tra un anno, non sanno ancora come eliminare liquami e carcasse di pantegane dal bacino che dovrà ospitare le gare del nuoto di fondo – sono impensabili. E’ andata così per le Olimpiadi invernali del 2018 (appuntamento nella sudcoreana Pyeongchang), per le estive del 2020 a Tokyo (ma qui pesa molto, si dice, la defaillance di Roma, che partiva da favorita) e, come s’è detto, per Pechino 2022. Il low cost non è cosa per loro, anche se il premier giapponese Shinzo Abe è stato costretto a cancellare il progetto per il nuovo stadio della capitale nipponica: 2 miliardi per l’impianto disegnato da Zaha Hadid sono sembrati troppi pure a lui – senza contare che, dall’alto, sembrava una specie di gabinetto. Ad ogni modo, le difficoltà ambientali non sono un ostacolo: se non c’è neve, pazienza. Si costruiranno ferrovie superveloci in grado di portare atleti, spettatori e giornalisti sui monti in meno di un’ora e mezza di viaggio.
[**Video_box_2**]Ogni tanto, certo, le emozioni prevalgono sul portafoglio. Può capitare, per esempio, che si decida di premiare il Brasile nonostante i rapporti degli ispettori del Cio – i rapporti non vincolanti ai fini della votazione ma che forniscono ai ciambellani un quadro tecnico completo e credibile delle città candidate a ospitare le Olimpiadi – avessero messo il Redentore all’ultimo posto della classifica. Si mormora, nelle segrete stanze del club più elitario al mondo – ci sono ex sportivi di fama, emiri e sceicchi, principi e principesse, re e duchi, magnati e potenti à la Blatter – che a far pendere la bilancia per Rio sia stata la lobby messa in piedi dalle consorti dei votanti. Vuoi mettere quindici giorni a Copacabana? Tra la dorata sabbia brasiliana e l’afa di qualche piatta città europea, il dilemma neppure si pone. Il soft power cinese ha colpito ancora.