Idee per un balzello web non tafazziano
Politicamente parlando, per Matteo Renzi la proposta di una “digital tax” (che il governo italiano metterebbe in campo dal 2017 se nel frattempo l’Unione europea non dovesse intervenire con una disciplina comunitaria sul tema della tassazione delle grandi aziende del web) serve a cogliere due piccioni con una fava. Primo, l’idea di una maggiore tassazione per Google, Apple, Facebook e compagnia bella intercetta un sentimento diffuso tra i cittadini italiani ed europei, che amano i vantaggi dell’economia digitale ma che mal sopportano l’estrema “volatilità” fiscale delle meglio multinazionali. Secondo, al premier riesce un esercizio curioso: l’inversione dell’onere delle riforme, con l’Italia che questa volta le chiede all’Europa e non viceversa.
Economicamente parlando, gli effetti di una tassa digitale vanno valutati con cautela. Servirebbe a poco un aggravio che si limitasse a estrarre reddito dalle multinazionali del web, perché inevitabilmente queste lo scaricherebbero sul prezzo dei servizi agli utenti. Non sarebbe un bel messaggio di innovazione per l’Italia se la musica su iTunes o i film su Netflix, ad esempio, finissero per costare il 10 o il 20 per cento in più. Sarebbe molto più comprensibile e auspicabile se la digital tax – come accaduto nel Regno Unito di Cameron e Osborne – contribuisse invece a riequilibrare il peso della tassazione delle imprese: più tasse sul reddito di Google, Apple o Facebook, ma meno Ires o Irap per tutti.
Detto questo, è nel pungolo all’Europa che apprezziamo di più il Renzi digitale: quella della tassazione delle multinazionali è oggettivamente materia che difficilmente gli stati nazionali possono maneggiare e risolvere nei loro confini, anche perché inficia inevitabilmente i rapporti commerciali con gli Stati Uniti e dunque le prospettive liberoscambiste tra le due sponde dell’Atlantico.