L'applicazione che fa “vedere” un museo ai ciechi e l'utilità della tecnologia per l'arte
Guarda che app! Presso il Museo sannitico di Campobasso hanno creato un’applicazione per non vedenti. L'esperimento mostra come la tecnologia può restituire a tutti la sacralità dell’opera d’arte
Il bello e il brutto della filosofia, anche di quella della comunicazione, è che, contrariamente a quanto si dice, può cambiare la realtà, traducendosi in esperimenti, azioni, gesti. Certo, alcuni di questi esperimenti sono orribili, come quelli razziali e quelli egalitari del secolo scorso. Altri, tuttavia, sono bellissimi, come quelli dell’architettura gotica per illustrare la relazione dell’uomo con Dio o quello di certe leggi che prevedono l’obiezione di coscienza come rispetto dell’imprescindibile singolarità e intangibilità dell’animo umano.
Presso il Museo sannitico di Campobasso ho avuto l’onore di collaborare a uno di questi esperimenti che vale la pena raccontare per il suo risvolto di pensiero, oltre che per la sua funzione sociale. Al museo dedicato ai sanniti, un’équipe composta dai comunicazionisti dell’Università del Molise, dal Centro Orientamento Ausili Tecnologici per persone con disabilità e dalla società Heritage - applicazioni elettroniche per beni culturali, hanno creato un’applicazione che serve ai ciechi per “vedere” il museo. La app è stata sperimentata in pubblico da alcune persone cieche e da una cinquantina di persone bendate. L’idea è quella di mettere insieme uno storytelling emozionale e immersivo, la tecnologia beacon di riconoscimento della localizzazione e la stampa in 3D di alcuni reperti. Il risultato sintetico è stato bene espresso da una studentessa vedente che, finita l’esperienza, si è stupita di aver visitato quel museo tante volte ma di averlo “visto davvero” solo in questa occasione, nella quale si trovava completamente al buio.
Foto Heritage Srl via Facebook
Perché è interessante questo esperimento e in che senso ci dice qualcosa sulla comunicazione? L’esperimento ci dimostra che in fondo Walter Benjamin e Andy Warhol avevano torto. Infatti, entrambi ci avevano fatto credere che l’opera d’arte, nell’epoca della sua tecnologizzazione, avrebbe perso la sua “aura”, la sua sacralità, retaggio dell’autoritarismo politico-religioso. Il cinema e la fotografia hanno introdotto una democratizzazione per cui ciascuno sarà protagonista e produttore in una fruizione finalmente non sacrale delle opere d’arte, che scorreranno rapidamente davanti ai nostri occhi. Ciascuno avrà i suoi minuti di notorietà, dicevano sia il filosofo tedesco sia il geniale artista americano. Sembrava che i social network avessero dato definitivamente ragione allo strano duo: milioni di opere d’arte in forme diverse, fotografate, tagliate, parte di selfie, compaiono a ogni istante sulle magiche bacheche mobili. Ciascuno di noi può fare video e foto e farli circolare presso un pubblico potenzialmente infinito, che guarderà l’ultima foto del mio pasto più recente come la foto della Gioconda postata dal Louvre.
E invece l’esperimento campobassano mostra che, sebbene sia interessante e spesso sembri essere confermata, la teoria di Benjamin in fondo è sbagliata. La app per ciechi indica che la tecnologia può svolgere anche l’operazione contraria, restituendo la sacralità dell’opera d’arte per i ciechi, e dunque per tutti. Dipende da come si concepisce la comunicazione e la tecnologia. Se si parte dal fatto che la realtà è comunicazione attraverso segni e che tali segni siano dotati di significato, si può costruire una comunicazione in cui siano il significato o i significati finali a guidare l’esplorazione tattile. Non solo, se si concepisce la tecnologia non come un’appendice estrinseca ma come uno strumento denso di significato, essa può introdurre una comprensione nuova e più profonda di quei significati unici che l’oggetto esposto contiene. In due parole: la tecnologia può essere un “gesto” cioè un’azione in cui il significato si manifesta mentre lo si comunica. Per usare un’immagine, l’app per ciechi mostra che la tecnologia rende possibile la fruizione di un oggetto come un teatro, esperienza multisensoriale e non a caso una delle antiche forme di educazione dell’umanità.
Una piccola rivoluzione
Inoltre, contrariamente a quanto si crede, l’educazione profonda alla tecnologia, quella che la rende parte dell’azione dell’uomo – come azione dell’uomo è diventato in altri tempi lo scrivere e poi il leggere e il produrre libri stampati – può addirittura rovesciare paradigmi consolidati: curare la comunicazione di un museo avendo come target le persone con disabilità può essere paradigma di una fruizione adeguata anche per i normo-dotati, in cui il significato attuato, teatralizzato, guida i sensi e non viceversa. Infatti, sono i normo-dotati che spesso hanno occhi e non vedono e hanno orecchi e non sentono. Ma questa distrazione non è un fine necessario né auspicabile, come facevano invece credere le teorie citate, e si può curare con un tipo diverso di comunicazione del nostro patrimonio artistico e culturale. Così un minuscolo esperimento può diventare una piccola grande rivoluzione per un mondo che concepisce sempre la tecnologia come appendice della comprensione e la disabilità come appendice della normalità.