Gratis non è un diritto
Difendere i produttori di contenuti dalla pirateria significa difendere l’innovazione e la società della conoscenza? Dibattito fogliante sulla direttiva europea sul copyright
La modernità del diritto d’autore
Il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, come noto ha recentemente criticato in modo aspro la nuova direttiva sul diritto d’autore approvata dalla Commissione giuridica del Parlamento europeo.
La tranciante presa di posizione del vice premier rende necessaria e urgente una riflessione di carattere più generale sull’argomento.
A prescindere dalle varie opinioni sulle specifiche misure del testo normativo in discussione, l’impressione è che l’approccio al tema sia spesso fuori fuoco, improntato ad una visione del diritto d’autore riduttiva e superata.
Nel discutere della questione in oggetto, un assunto dovrebbe risultare evidente e condiviso: il diritto d’autore rappresenta un istituto di estrema modernità, bisognevole degli opportuni adattamenti alle nuove tecnologie, ma strettamente indispensabile nella società contemporanea.
Oggi il diritto d’autore è infatti uno strumento che svolge le sue funzioni andando ben oltre lo stretto contesto settoriale, giungendo a incidere in modo determinante sulle più generali dinamiche economiche e culturali della nostra realtà.
Il diritto d’autore in questi nostri anni non rappresenta un mero strumento di difesa a favore di pochi interessati, ma costituisce un istituto di pubblica utilità, che riveste centrali valenze di interesse generale.
La conoscenza, invero, viene univocamente ritenuta l’elemento che più di qualsiasi altro permea e condiziona i meccanismi della civiltà contemporanea, in qualunque contesto e in ogni campo: dalla politica all’impresa, dai rapporti sociali a quelli economici, dall’ambito culturale a quello lavorativo.
E si tratta di una conoscenza che ha la necessità di essere continuamente rinnovata e alimentata: data la velocità e la vastità con cui ne avviene ininterrottamente la propagazione e l’utilizzazione, essa ha un ciclo di vita estremamente breve e tende a diventare rapidamente obsoleta; di qui la necessità di continui apporti di contenuti inediti e originali.
Ecco allora che i produttori di contenuti, nelle odierne dinamiche della economia della conoscenza, sono sostanzialmente chiamati a funzioni di natura pubblica che mai avevano conosciuto prima d’ora nella storia.
Ovvero, se vogliamo dire diversamente, il fondamentale ruolo svolto dai produttori di contenuti per il progresso dell’umanità sin dalla notte dei tempi, oggi – nella “società della conoscenza” – diventa di palmare evidenza, quasi di tangibile concretezza.
Nella odierna “realtà della conoscenza”, di conseguenza, diventa essenziale rafforzare adeguati meccanismi giuridico-economici in favore dei produttori dei contenuti.
Il diritto d’autore, allora, in questa prospettiva non si pone in difesa degli interessi particolari di pochi, ma invece opera a tutela di quello che rappresenta il vero centro propulsivo, il più autentico motore di sviluppo della civiltà attuale, con benefici che si riversano in modo diretto sulla collettività dei cittadini.
Schierarsi dalla parte dei produttori di contenuti, insomma, significa impegnarsi in una battaglia di estrema modernità, foriera di importanti e positive ripercussioni sulla intera società contemporanea.
Non bisogna poi sottovalutare, ragionando in termini più squisitamente tecnici, che oggi il diritto d’autore rappresenta un primario istituto della proprietà intellettuale, una fonte di significativo valore aggiunto per il mondo delle imprese, nell’ambito del quale sta trovando spazi e applicazioni di grande rilievo. Basti accennare al fatto che i più diffusi strumenti per la gestione dei Big data e della Blockchain, le due frontiere più avanzate dell’Innovazione Tecnologica e dell’Industria 4.0, trovano il proprio fondamento nel diritto d’autore: la tutela del software e il diritto sui generis dei database.
Certo, da un punto di vista strettamente giuridico, il diritto d’autore rappresenta un istituto che necessita di riforme. Non appare revocabile in dubbio, invero, che la materia autoriale debba essere affrancata dalle stigmate della sua origine ottocentesca, con la conseguente e pervasiva impronta di stampo dominicale. Esistono, al riguardo, tutti gli strumenti per attenuare gli aspetti di natura proprietaria e di carattere impeditivo che caratterizzano attualmente l’istituto, rendendolo maggiormente in sintonia con le note di apertura e collaborazione tipiche della realtà contemporanea. Ma il tema deve essere trattato con serietà e competenza, tenendosi alla larga dalla serie di luoghi comuni e banalità che circondano l’argomento. E avendo bene in mente la modernità del diritto d’autore, il suo ruolo cruciale nella economia della conoscenza, le sue vaste utilità sociali e culturali per la società contemporanea.
Alberto Improda
Diritto d’autore fra tecnologia e cultura
Quella del diritto d’autore è una tematica tutt’altro che recente: se ne parla e se ne dibatte sostanzialmente dalla stampa a caratteri mobili. Negli ultimi decenni, tuttavia, l’introduzione di nuove tecnologie ha sostanzialmente modificato la struttura dei consumi legati ai “contenuti”. La rapida ascesa che ha visto in un tempo brevissimo (se paragonato al periodo delle innovazioni precedenti) l’affermarsi di Cd, Mp3 e servizi in streaming ha messo a dura prova coloro che tentano di proteggere i “diritti” di coloro che contribuiscono in modo attivo alla creazione di quelle che, di fatto, sono le componenti strutturali della nostra epoca “dell’informazione”.
Oggi è possibile, senza troppe difficoltà, scaricare un film da internet o vederlo da una piattaforma online in streaming senza che nessun compenso vada a essere ripartito alla catena di creazione del valore di quel prodotto culturale e, di conseguenza, senza che nessun diritto vada riconosciuto ai “creatori” dello stesso. Questo comportamento è pubblicamente e continuamente condannato, sia da regolamenti ufficiali che da icone dello star system la cui influenza, tuttavia, si è rivelata ridotta rispetto ad altre campagne di marketing e comunicazione che li hanno visti protagonisti. Fermarsi al “non si fa” è però un atteggiamento banalizzante e riduttivo. Soprattutto quando il “non si fa” si è rivelato, nel tempo, inefficace. Un grande giurista italiano sosteneva, in privato, che quando una legge viene sistematicamente violata dalla maggior parte della popolazione, non ci si trova di fronte a una popolazione criminale ma ad una normativa inadeguata. Nel caso del diritto d’autore, probabilmente, più che di fronte ad una “legge” vera e propria, a essere inadeguata è una “legge di mercato”. I dati, in questo senso, parlano chiaro: secondo una recente (anche se non recentissima) ricerca condotta da Fapav (Federazione per la tutela dei contenuti audiovisivi e multimediali) e Ipsos, tra il 2016 e il 2017, il 39 per cento degli italiani ha condotto almeno una forma di pirateria, principalmente online (pirateria digitale). 2 Italiani su 5, insomma, con il sospetto che “in fondo” di “pirati”, in giro, ce ne siano anche di più. Per quale motivo le persone attuano questi comportamenti? Sicuramente per motivi economici, è chiaro, ma anche perché al momento non sono ancora stati individuati dei modelli di business che permettano di rendere tali consumi inutili. Lo strumento giuridico, in questo caso, non è e non può essere il vero deterrente. Secondo la già citata ricerca ci sono circa 23 milioni di persone sulle quali potrebbe pendere un provvedimento: “Too many to fail”. La vera rivoluzione deve dunque avvenire seguendo altre forme di innovazione e una conferma, in questo senso, potrebbe provenire proprio dagli “identikit” dei pirati proposti dalla già citata ricerca: ciò che realmente emerge come dato molto importante per il fenomeno, non è né la composizione demografica, né la tecnologia utilizzata (download o streaming). Rileva piuttosto la correlazione con altri consumi: il 22 per cento di coloro che hanno utilizzato servizi pirata hanno utilizzato anche servizi di sharing mobility (contro il 9 per cento di coloro che non hanno attinto al grande universo dei contenuti “free”), il 19 per cento (contro il 7 dei “non pirati) ha avuto accesso o fornito servizi di house sharing (condivisione della casa sul modello di couch-surfing), il 20 per cento (contro il 7 per cento) ha utilizzato forme di co-working e il 18 per cento (contro il 5) utilizza piattaforme di crowdfunding. Il quadro che emerge pari dunque ricollegare (almeno in parte) l’utente pirata a un individuo digitalmente integrato, smart, che potrebbe nella maggior parte dei casi accedere a contenuti a pagamento (l’indagine parla di un campione composto principalmente da lavoratori, 54 per cento). Capire quali siano le caratteristiche e i motivi che portano una persona a consumare un contenuto in modo “illecito” è fondamentale per riuscire a comprendere anche le conseguenti misure che potrebbe essere utile attuare per contrastare tale fenomeno. Segni questi che tendono a confermare che seppur in modo distorto molte persone abbiano confuso l’idea dell’internet “open” e “free” con l’idea di internet “gratis”.
Un Internet “open” e libero non passa attraverso un internet di cose “gratis”, anzi. I free rider (vale a dire gli scrocconi, ma detto in modo più carino) non aiutano nemmeno un po’ la creazione di un internet libero perché i loro consumi, ledendo i diritti di altri soggetti, richiedono lo sviluppo di tecniche sempre più sofisticate di controllo sui contenuti, che è esattamente il contrario di quanto spesso dichiarano di volere. Questo punto, sebbene non possa (da solo) a contribuire concretamente alla riduzione del fenomeno, giocherebbe invece un ruolo molto importante nell’adozione di sistemi di consumo “alternativi” che si mostrino più validi di quelli attuali. Tante speranze, in questo senso, vengono riposte nella tecnologia Blockchain (un enorme registro contabile decentralizzato che permette di monitorare tutte le transazioni avvenute all’interno di un sistema), Kodak ha ad esempio avviato, in questo senso, la creazione di una piattaforma (la KodakOne) all’interno della quale i fotografi e i potenziali compratori (spesso agenzie di stampa o di comunicazione) potranno regolare le transazioni attraverso una specifica criptovaluta. Questa strada, per quanto virtuosa, non potrà però essere estesa, in modo pedissequo, a tutti i comparti della creazione di contenuti, e questo perché, soprattutto in alcuni settori di produzione culturale, si tende a concentrare l’attenzione esclusivamente all’autore e non al comparto industriale che gravita intorno all’artista. Si provi ad ascoltare un album demo e un album “prodotto” di uno stesso artista, e sarà chiaro quanto lavoro è stato necessario per raggiungere quel determinato risultato. Applicare la Blockchain all’intero comparto industriale è possibile, e sicuramente questa sarà una strada che verrà percorsa e che potrà essere ancora più forte se verrà associata alla leva della “qualità dei contenuti”: oggi esistono altoparlanti che si collegano direttamente ad internet e che permettono di poter riprodurre contenuti audio con livelli di qualità sensibilmente superiori a quanto possano garantire i servizi di free-streaming. Unire questa strada di “integrazione verticale” tra hardware (l’altoparlante, il proiettore o il televisore) e il contenuto, con una logica di pricing che possa favorire l’adesione, potrebbe forse essere il modo più furbo per poter ridurre sempre più il consumo di contenuti erogati attraverso canali non ufficiali.
Insomma, pensare che basti una sanzione o maggior controllo è ingenuo. Vanno cercate strade più adatte, che rispondano alle esigenze di un popolo di scaricatori di file che, evidentemente, è poco interessato agli aspetti legali e di retribuzione del diritto d’autore.
Stefano Monti
La direttiva favorisce chi vuole colpire
Nella direttiva dell’Unione europea sul copyright si evidenzia una eterogenesi dei fini. Volendo contrastare lo strapotere di alcuni grandi gruppi l’Ue finisce, in realtà, per favorirli. Perché fissa dei paletti tecnologici e organizzativi così alti che, in termini di costi, rischiano di essere insostenibili per le piccole realtà. Sono d'accordo con le critiche di Di Maio sull’articolo 13, mentre non condivido del tutto la sua posizione sull'articolo 11. Quest’ultimo, infatti, pur affrontando un tema centrale come la remunerazione e la tutela degli autori, introduce un meccanismo di compensazione potenzialmente complesso e ancora non del tutto trasparente. E la complessità, ovviamente, penalizza i piccoli siti perché li costringe ad affrontare alti costi fissi e costi di transazione potenzialmente molto elevati. Insomma, il principio ha buone intenzioni, ma se fissa una soglia d’ingresso e un costo di gestione troppo elevati, favorisce chi, per dimensioni, non ha particolari problemi a sostenere questi oneri. Anzi potrebbe addirittura trovarlo conveniente proprio per garantirsi maggior spazio in un mercato con meno competizione. Il rischio che evidenzio è che se oggi noi ci troviamo un mercato libero e anche un po’ anarchico che sfavorisce un po’ tutti i produttori di contenuti originali, domani, molto probabilmente, ci ritroveremo in un oligopolio ancora più ristretto nella distribuzione. Si tratta a mio avviso di una manovra con potenziali effetti anticompetitivi che favorisce il consolidamento di chi, in realtà, si vorrebbe penalizzare. Sull’articolo 13 mi associo alle critiche di Di Maio, ma per ragioni diverse. Non mi sembra esista una giustificazione sufficiente, dal punto di vista liberale, per introdurre un filtro di controllo preventivo. Anche in questo caso il rischio è che gli unici in grado di sostenere i costi di questa operazione siano i grandi gruppi. Con il potere di selezione dei contenuti che, a quel punto, sarebbe nelle mani di pochissimi. L’intelligenza artificiale applicata al linguaggio e ai contenuti simbolico, lo sappiamo, è ancora fondamentalmente stupida. Troppe volte non coglie le sfumature, il contesto lessicale, l’ironia. Sottoporci a un tribunale algoritmico preventivo potrebbe portare a una indesiderabile omogeneizzazione dei contenuti. Non è solo una questione di libertà di espressione, ma anche di varietà e ricchezza. La regolamentazione eccessiva diminuisce la biodiversità culturale di internet. E consegna un eccesso di potere nelle mani dei grandi gruppi.
Carlo Alberto Carnevale Maffè
SDA Bocconi School of Management