Viaggio nel paradosso della rete. Oltre il caso Facebook-CasaPound
Come districarsi sulla rete tra tutela della libertà di espressione e contenimento dell’odio. Indagine
Roma. Dove finisce l’azienda privata, per quanto smisurata sia la sua dimensione, e dove inizia il campo pubblico quando si parla di Facebook (e in generale dei social network)? E dove finisce la lotta contro il cosiddetto “hate speech”, discorso d’odio dentro e fuori dal web, e dove comincia la predominanza di una legge privata su quella dello stato? “Legge privata, opaca e sovranazionale”, scriveva ieri Mattia Feltri sulla Stampa, a proposito dell’oscuramento da parte di Facebook e Instagram di decine di siti legati a CasaPound, ai suoi dirigenti e ad altri esponenti dell’estrema destra, sanzionati dal social network per “diffusione d’odio” (e però in alcuni casi gli stessi esponenti sono eletti a cariche pubbliche in conformità a leggi dello stato).
E se la giovane giornalista americana Jia Tolentino scala le classifiche di vendita con il suo “Trick Mirror”, raccolta di saggi sul perché “Internet è diventato uno schifo”, come titola Rivista Studio, l’opinione pubblica e il mondo politico italiano si trovano di fronte a un dilemma: esultare per la cancellazione di siti di estrema destra che esprimono idee che suscitano disgusto, idee a volte anche al limite della legge, o fermarsi a ragionare sulle implicazioni dell’atto di spegnimento-siti: perché potrebbe succedere un giorno ad altre organizzazioni, perché chi ha preso la decisione (Mark Zuckerberg o chi per lui) non è un pubblico decisore ma un privato decisore, e però le aziende, i partiti e i singoli cittadini, che del social non possono più fare a meno, considerano di fatto quella decisione “legge” anche prima che intervenga la legge vera e propria. Il premier Giuseppe Conte ha invitato i rossogialli del neonato governo a un “uso responsabile dei social network”, ma una voragine di dubbi si spalanca: chi decide fino a dove l’uso è responsabile? “Il problema è che tutti vogliono stare attenti ai contenuti degli altri”, dice Innocenzo Genna, giurista esperto di regolamentazione europea delle telecomunicazioni e di internet: “Ogni volta che c’è qualcosa di dannoso su una piattaforma tutti si adoperano perché venga rimosso. Ma non si pensa ai propri contenuti: e se fossi io a essere bannato? Questa è una domanda che difficilmente poniamo a noi stessi, anche se il nostro uso dei social è ormai ineluttabile, e anche se non si può più dire ‘non sono sui social’, come non si può più dire ‘non uso il telefonino’. E se sei un’azienda, un partito o un’associazione tantomeno puoi evitare di stare su Facebook. E Facebook è un’azienda privata ma non è una normale azienda privata. Bisognerebbe allora accordarsi sulle regole che i social network devono applicare, regole valide in tutti i casi”.
“E’ interesse delle stesse grandi piattaforme, anche se bisogna stare attenti a non iper-regolamentare”, conclude Genna. Per Gianpiero Lotito, tecnologo, ceo e fondatore di Facilitylive, al di là del caso specifico, “non può esserci azienda privata che diventa servizio pubblico a meno che non ci sia una norma che lo stabilisce: si deve colmare un vuoto normativo. Facebook si trova in posizione di monopolio, è un ibrido tra pubblico e privato, e allora bisognerebbe consentire anche alle aziende europee di esserlo. Né si può essere allo stesso tempo servizio pubblico neutrale e azienda di profitto a meno che non cambino le regole per tutti. Chiediamoci anche che cosa comporta il fatto di essere oscurati da Facebook. Siamo arrivati a considerarla entità senza sesso, sospesa tra privato e pubblico, spazio comune a disposizione di tutti, ma non è così. Questa è l’anomalia. Non è razionale il timore di oscuramento. E’ un paradosso digitale, quello di considerare Facebook come fosse la Rai”.
“Facebook non ci deve nulla”, dice Luca Sofri, direttore del Post: “E’ un’attività privata, gratuita e con delle regole formali. Queste tre cose rendono le pretese tonanti di farlo essere un luogo di applicazione di diritti un po’ ridicole: non si può usare un servizio privato, non pagarlo, e protestare perché le regole di quel servizio vengono applicate. Come pretendere di entrare col cane in un posto dove c’è scritto che i cani non possono entrare. Le regole su Facebook le stabilisce Facebook, nel rispetto delle leggi esistenti. Se il risultato non soddisfa, si può solo cambiare le leggi esistenti ma non prendersela con Facebook che è completamente nel suo diritto e nelle regole”. La contraddizione, dice Sofri, “è che tu non puoi consegnare a un’impresa privata buona parte della vita pubblica e politica. Avendolo fatto, caso unico e senza precedenti nella storia, o il pubblico (gli stati) se ne impadronisce e stabilisce regole (ma poi sarà il pubblico a sancire i discorsi d’odio, e non farà tanta differenza), oppure smettere di legittimare quella cosa come centro della vita pubblica e politica”.
E ieri, su Twitter, il professor Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente alla Bocconi, scriveva: “Su Facebook viene bandito chi proclami missioni violente o che incitano all’odio, indipendentemente dall’ideologia o dalla motivazione. Sbaglia, quindi, chi pensa di affidare a Zuckerberg la lotta al neofascismo, per conto terzi. Quella responsabilità è solo nostra”. Interpellato in proposito, Carnevale Maffè insiste sul concetto di delega: “L’antifascismo è un dovere dei cittadini, non si delega, altro è il piano della legittimità tecnico-giuridica. Qui non si tratta di censura. Qui c’è un contratto. Certo, c’è il tema del grande potere di Facebook. Ma la confusione è il segno dei tempi: la gente non distingue più tra pubblico e privato. Considera Facebook soggetta alle leggi italiane. Ma qui non si tratta di censura al fascismo ma di censura discrezionale dell’hate speech. Firmi un contratto quando entri nel social network, quello non è un luogo dove si esercita un diritto del cittadino”. Per Giovanni Pitruzzella, giurista ed ex presidente dell’Antitrust, “posto che le piattaforme internet hanno grande incidenza nel dibattito pubblico, bisogna domandarsi chi controlla i controllori dell’informazione? Ci sono infatti soggetti privati che svolgono funzioni di rilievo pubblico. Certo la soluzione non è che il discorso d’odio si sviluppi senza limiti, ma l’introduzione di un quadro di regole che stabilisce quale tipo di intervento la piattaforma può fare e stabilire procedure rapide di ricorso a un’autorità terza in caso di censura”.
Stefano Quintarelli, imprenditore, informatico ed ex parlamentare di Scelta civica (che con Pitruzzella e Oreste Pollicino ha scritto “Parole e potere” Ed. Egea), si sofferma sulla natura di internet, “nata nelle università sull’idea dei protocolli e sull’inter-operatività. Si è deciso allora di non regolamentare, si diceva ‘la concorrenza è a portata di clic, ma si è visto che non è vero. Il problema non è Facebook che censura. Facebook non è giudice ma lo diventa nel momento in cui non ci sono regole che agiscano per l’inter-operabilità”. Per Damiano Palano, docente di Scienza politica all’Università Cattolica, non è tanto la libertà di espressione il punto: “I limiti alla libertà di espressione ci sono sempre stati e anche soggetti privati li hanno fatti valere. La novità è che in questo momento a decidere i confini di che cosa può essere detto da una forza politica non sia lo stato ma un soggetto privato che agisce in base a regole commerciali di cui sappiamo poco. In futuro si porrà il problema della forza contrattuale di questi soggetti: sarà difficile gestirli e porre limitazioni. Il caso di CasaPound è un caso estremo, non ci saranno sollevazioni popolari, ma per l’opinione pubblica il tema è cruciale: riguarda il potere che hanno queste realtà di manipolare il contesto in cui la discussione pubblica si svolge”.