GIROTONDO

Chi ha paura di Elon Musk

Redazione

Cinguettare e litigare. Come può cambiare Twitter nella nuova stagione? Il progetto del capo della Tesla, i confini della libertà, le minacce possibili e la necessità di non prendersi sul serio. Un dibattito

Cambierà qualcosa in Twitter ora che Elon Musk se n’è aggiudicato il controllo? Se l’è chiesto il Wall Street Journal annunciando l’acquisizione, ce lo chiediamo noi con l’aiuto di alcuni foglianti. Perché l’operazione finanziaria monstre (più o meno 45 miliardi di dollari) ha anche un’indiscutibile valenza politica (in tema di comunicazione e libertà d’espressione) e culturale. 

   

Libertà e comunicazione. Evitare l’effetto Netflix si può


Che cosa diventerà Twitter in mano a Elon Musk? Per il Wall Street Journal che si è posto questa domanda cruciale, non è affatto chiaro. La questione può essere vista da due lati, uno strettamente finanziario e uno culturale, anzi politico tout court, e vanno esaminati in parallelo. Sappiamo che Musk ha intenzione di togliere il titolo dalla Borsa e rinunciare alla pubblicità, inoltre potrebbe mettere a disposizione l’algoritmo per intervenire dall’esterno, insomma una grande open source. “L’assolutista della libertà di parola”, come si è definito, ha parlato già contro l’influenza degli inserzionisti i quali se da un lato esercitano un ruolo di “moderatori” visto che per lo più preferiscono contenuti standard, dall’altro influiscono in modo improprio limitando la libertà. E’ una questione estremamente sensibile per tutti i mass media, compresi quelli nuovi, ed è emersa anche per Netflix (sulla quale tra l’altro sembra aver messo gli occhi lo stesso Musk). Ma uno strumento di comunicazione che informa e disinforma al pari di Twitter, posseduto da un solo padrone, non rappresenta anch’esso una potenziale minaccia alla libertà di espressione? La Borsa, la pluralità degli azionisti, la stessa pluralità degli inserzionisti specchio di interessi anch’essi plurali, tutto ciò rappresenta sul terreno economico un equilibrio dei poteri in concorrenza tra loro, per quanto instabile o meglio flessibile e sempre aggiustabile. 
Musk ha attaccato Bill Gates, suo avversario finanziario e politico-ideologico (l’ultima accusa è di speculare contro Tesla), e lo scontro tra i due capitalisti, il liberal-conservatore e il liberal-progressista, eccita le penne e accende le passioni. Ma le cose appaiono più sfumate e senza dubbio più complicate.  La questione finanziaria è anch’essa di non poco conto. La pubblicità rappresenta il 90 per cento degli introiti e fornisce un ricavato che difficilmente potrà entrare per altre vie. Il profeta dell’auto elettrica, il magnate dello spazio, il brillante co-fondatore di Paypal (e tutto il resto) dice che Twitter “non è un mezzo per fare soldi” e anche questa affermazione può piacere a destra e a manca, ai libertari puri e duri come ai nemici della turbofinanza. Tuttavia Musk non ha tirato fuori dal suo portafogli i 44 miliardi di dollari con i quali paga l’acquisizione, ma li ha presi in prestito da Morgan Stanley e altre istituzioni finanziarie offrendo parzialmente in garanzia le azioni Twitter, come risulta dalle dichiarazioni rilasciate alle autorità di vigilanza. Insomma, s’è indebitato aumentando il debito della società, quindi Twitter avrà bisogno di una elevata liquidità nei prossimi anni. Musk è un innovatore immaginifico, un gran venditore di se stesso e della propria immagine, molte volte ha sorpreso tutti; nel caso della Tesla, ha tenuto duro e ha avuto ragione. E’ stato aiutato, per esempio da John Elkann tra il 2017 e il 2019, nel momento peggiore, quando rischiava il fallimento. Competizione e cooperazione, un’accoppiata virtuosa. Anche stavolta dovrà trovare chi gli dà una mano, magari a costruire un gruppo che mettendo insieme informazione e intrattenimento, consenta di avere la massa critica per stare in piedi da solo. 


Stefano Cingolani

 
Nessuno ha mai speso 44 miliardi per il bene dell’umanità

E adesso cosa se ne fa? Non c’è dichiarazione o commento di Elon Musk – prima di accaparrarsi Twitter o a operazione felicemente compiuta – che non faccia venire pensieri cupi. Nessuno sano di mente ha mai speso 44 miliardi di dollari per il bene dell’umanità. La filantropia ha un limite. Se un miliardario si compra una piattaforma che ritiene indispensabile per la libera espressione del prossimo suo – almeno, quello con tempo da perdere – un brividino viene. Forse abbiamo letto troppo George Orwell, o altri apocalittici romanzieri. Forse abbiamo qualche esperienza sui danni che procura al prossimo suo chi vuole raddrizzare “il legno storto dell’umanità”. O anche soltanto emendare i difetti dei nostri modi di comunicare: le buone intenzioni portano sempre a risultati disastrosi.
Ha speso tutti quei miliardi, dice, per “migliorare il prodotto con nuove funzionalità, e autenticando tutti gli esseri umani”. Gli algoritmi saranno “open source”, certamente: da quando le due paroline non ci rassicurano più? Qualcosa bisogna cedere, per poter insultare il mondo intero – o farsi insultare e credersi martiri, o sentirsi importanti quando i giornali citano perfetti sconosciuti solo perché l’hanno sparata più grossa degli altri. Ma quando te lo chiedono così sfacciatamente – “vuoi d’ora in poi vivere nella perfetta trasparenza, garantita da me che per comprarla ho speso un bordello di soldi?” – un dubbio viene. Non siamo contrari al progresso e alle novità, sono le novità a essere sinistramente antiche.


Mariarosa Mancuso

 


Musk? Non che fino ad ora ci gestisse Gandhi

Scrivere qualcosa su Twitter più lungo di un tweet è esattamente il motivo per il quale amo Twitter. Risultare cretino credendo di essere brillante mi corrisponde. Continuerà a farlo, una volta accaparrato da Elon Musk? Boh, chi dice di saperlo è un tipo da Facebook, Twitter è un posto per gente che sa chi è Mino Vergnaghi. Cosa è Musk? Lo Stregatto o Leonardo? Capirlo è più insensato che cercare di entrare nella testa di Putin. Al solito, sarà tutti e due, Joker e Galileo. Leggo scandalo per l’acquisizione di Twitter, verrebbe da dire It’s the economy, stupid (vedi Vergnaghi sopra). Segnerà un cambiamento epocale o sarà come quando quello di Facebook si comprò il New Republic? Qualcuno dirà: non lo so e non voglio saperlo, magari “cerchi l’evasione più banale” (sì, Instagram, sì, ancora Vergnaghi). Io resterò, continuando a credere di essere brillante e risultando cretino. Dice, ma sarai nelle mani di Musk. Dico, non che fino adesso mi gestisse Gandhi. Dice, ma così vince Trump. Dico, e allora attrezziamoci (noialtri, quelli di Vergnaghi). Mi fa tenerezza la promessa della bonifica da troll, bot e fake news. Non perché su Twitter mi chiami nomfup, che dico. Ma perché mi pare che si parli di “coraggio e volontà” (copyright sempre di avete capito chi). Marattin direbbe: finalmente la promessa di autenticare gli utenti, documenti prego e saremo tutti più liberi in quanto noi. Vorrei avere la sua fiducia nel prossimo, ma sono cattolico (e progressista, per di più, qualunque cosa significhi). Ecco, questo non mi piace del progetto di Musk, più che il ghigno, l’auto elettrica, il capriccio. Con l’età ho capito che la democrazia è pazienza, regole e contributi, “diritto di votare e dire no, bisogno di campare e dire sì”, cantava sempre lui. Rimpiangeremo i tempi belli di Dorsey? Forse sì, ma invecchiamo apposta. Chiude il nostro bar preferito? Magari ristruttura e basta, il tanto per consentirci di sospirare come era prima. Finiscono democrazia e libertà? No. Il problema non può essere se Musk sia ’o zappatore, felicissima sera, un impresentabile o meno. Il problema sarà: ce la faremo? Tranquilli. Come direbbe Vergnaghi, “domani è ancora uguale”.


Filippo Sensi

 

Musk manda in cortocircuito i paradossi della bolla digitale

Ha ragione chi dice che liberalizzare Twitter, come quel magnifico miliardario anarchico libertario di Elon Musk ha detto di voler fare, aiuterà bot russi e molestatori vari. Ma hanno ragione anche coloro che dicono che i signori della Silicon Valley si sono arrogati poteri di veto su molte verità, come il cambiamento climatico, le origini del Covid, il transgender e le critiche al multiculturalismo (l’economista di sinistra Branko Milanovic dice che Twitter “è come la Pravda”). Il Big Tech stava diventando più consapevole dei pericoli di servire come ancella alla polizia del pensiero “woke”, ma i suoi dirigenti erano rimasti troppo complici o troppo spaventati per fare qualcosa al riguardo. Certe critiche a Musk poi fanno ridere. Un ex capo di Reddit ha chiesto al governo di intervenire “per impedire ai ricchi di controllare i nostri canali di comunicazione”. Lo ha scritto sul Washington Post, di proprietà di Jeff Bezos. Il professore di giornalismo della New York University Jeff Jarvis invece ha scritto: “Oggi su Twitter sembra l’ultima sera in un nightclub di Berlino al crepuscolo della Germania di Weimar”. Per alcuni, siamo sempre a Weimar. Musk manda in corto molti grotteschi paradossi di questa bolla digitale. Quelli che si sono messi in testa che la minaccia alla democrazia non venga dalla repressione del dissenso nella cornice democratica, ma da un eccesso di libertà di parola e che lo stato, il Big Tech e i media debbano fare lega per censurare, censurare e censurare. “Spero che anche i miei peggiori critici rimangano su Twitter”, ha scritto Musk, “perché questo è ciò che significa libertà di parola”. Non male, come partenza.


Giulio Meotti

 

L’arena modello Musk? Viene da leccarsi i baffi

Elon Musk ha comprato Twitter per una cifra spaziale (d’altronde, da parte sua non ci aspettiamo nulla di meno). Elon Musk ha comprato Twitter con l’intenzione di farne un’arena inclusiva dove potersi esprimere in assoluta libertà.  Chiunque potrà dire qualsiasi cosa. Qualsiasi opinione, anche la più estrema, sarà ben accetta. Nessuna censura. Siamo all’assolutismo della libertà di espressione. Assolutismo però evoca altro: i poteri illimitati in fondo non sembrano essere fuori dalla portata di un uomo con un patrimonio personale di 266 miliardi di dollari; uno che per primo ha messo in orbita un razzo privato e possiede una compagnia spaziale privata che si presuppone sempre di più perseguirà fini commerciali altrettanto privati. Uno che tanto assomiglia al miliardario senza limiti di “Don’t look up”.
Elon Musk ha comprato Twitter, proclama la libertà di espressione, e per un sillogismo si può dire che abbia comprato la nostra libertà di espressione. L’ha chiamata “arena”, si trasformerà presto in un ring. Se dichiaro che non esisterà la censura, i primi a non censurarsi saranno gli utenti, legittimati a non darsi limiti etici, ad alzare il livello dello scontro, ad assumere atteggiamenti verbali antidemocratici. Alzare il livello dello scontro – lo abbiamo visto negli ultimi anni – significa polarizzazione politica. Chi si avvantaggerà di questa polarizzazione? Chi potrà maneggiarla a proprio vantaggio? Scopriremo solo con il tempo se l’assolutismo di Musk si rivelerà assolutismo illuminato o meno
Da un lato la libertà di parola assoluta, dall’altro l’edit bottom. Finalmente si potranno correggere i propri tweet, magari per correggere i refusi. Si dice che si potrà fare per breve tempo dopo la pubblicazione. Tutto questo impone un ragionamento sul movimento psicologico di un possibile utente. Qualcuno che prende in mano il telefono, che forse è arrabbiato, furente per un qualsiasi motivo; in quel momento ha spianate le armi dell’aggressione verbale, ma non conosce nessuna esitazione: scrive il suo tweet senza la doccia fredda del pensiero critico, può dire tutto senza pensare alle conseguenze, figuriamoci alla censura. Poi, se si dovesse accorgere di averla sparata troppo grossa, potrà sempre correggere. Gli è concessa la possibilità di cambiare idea, come estensione del proprio libero arbitrio. Sembra un freno, ma in realtà è un’accelerazione. Non farà che rafforzare la prima fase: quella dello slancio aggressivo, quella dell’estremismo istintivo. Tu fallo, al limite poi torni indietro, ti censuri da solo. C’è da scommetterci che non saranno in molti a farlo. 


Gaia Manzini

  

Teniamoci stretto, con il  Macron II, il dinamismo del mercato libero

Paypal, missili, auto elettriche, viaggi su Marte e ora anche Twitter. Elon Musk è l’uomo del nostro tempo. Un nuovo pioniere del capitalismo digitale e un’icona pop che passa dai Ted Talk ai “Simpson”, dai satelliti in competizione coi cinesi ai cameo in “The “Big Bang Theory” e “Iron Man 2”, sfidando anche Putin a colpi di judo su Twitter.  La nostra idea di genio era sin qui modellata sul mito di Steve Jobs. Ascetico, misterioso, riflessivo, fruttariano, la pura espressione della mistica post-lisergica della Silicon Valley. Musk no. Fracassone, ultranerd, non a dieta, un po’ burino, secondo i suoi detrattori (o “fanfarone”, come l’ha definito Gramellini, mentre la Nasa sceglieva il suo SpaceX per una nuova missione lunare). Di sicuro, Musk non è il cocco della Silicon Valley. Ma un libertario visionario, spavaldo, genio & sregolatezza, all’occorrenza populista, formatosi sui videogame, con un curriculum di invenzioni che annichilisce quello di Steve Jobs, catapultato in una manciata d’anni dai giochetti per il Commodore Vic-20 alle esplorazioni interplanetarie. Eppure oggi non si trovano grandi dichiarazioni dei politici italiani sull’acquisto di Twitter, uno snodo decisivo, forse epocale, del rapporto media-democrazia, della nostra idea di sfera pubblica e d’informazione (che è già tutta nelle cifre: Bezos si è comprato il Washington Post per 250 milioni di dollari, Musk sborsa 44 miliardi di dollari per Twitter). Mentre Elon Musk diventava l’unico proprietario della piattaforma, qui si era tutti presi dagli sbandieramenti di falci e martelli e rivendicazioni “leniniste” del copyright antifascista, come in un esperimento di una macchina del tempo che piacerebbe forse molto a Musk. Ma anche in questo gran concerto di polemiche, sempre uguali da settant’anni, un manipolo di difensori del “free speech” trovava il tempo di far sapere al mondo che ora Twitter “non ci interessa più”, come ha scritto Severgnini puntando a diventare hashtag di giornata. Se vieni tu, ce ne andiamo noi. E siccome qui non si scherza, Sebastiano Messina da Repubblica taggava anche Musk, per avvertirlo e per metterlo in guardia: “Se torna Trump questo posto si svuota”. A parte che Trump è così offeso che a quanto pare non torna, colpisce, come al solito, il senso della misura del dibattito italiano. Da due mesi decidiamo per gli ucraini, ora decidiamo il destino di Twitter. Perché qui Twitter l’avremmo già dato in pasto allo stato-controllore: una piattaforma parastatale, ufficio protocolli post, marche da bollo, concorsone per entrare al ministero dei social, la Cgil, un Cda eletto dai partiti, e un Twitter all’occorrenza grande ammortizzatore sociale, modello Rai-Alitalia. Certo, il tema è scivoloso. Ma i critici liberal, terrorizzati da Musk a capo di Twitter, partono col piede sbagliato. Hanno spesso un’idea assai bislacca di “free speech”, un’immagine deformata del liberalismo e un’idea paternalistica di libertà (nella migliore delle ipotesi, una libertà “keynesiana” col freno a mano tirato). L’utopia di un Twitter buono, giusto e intelligente, dove ci parliamo tra noi e i cattivi sono espulsi, è la riproduzione digitale di una società perfetta. E come tutte le promesse di società perfetta, liberate dal profitto o dai cattivi, dovrebbe sempre insospettirci. Teniamoci invece stretti, insieme all’elezione di Macron, il dinamismo del mercato libero che ora mette Musk nelle condizioni di testare le sue innovazioni e le sue idee in fatto di algoritmi. Di mettere alla prova la sua convinzione, più o meno strafottente, di saper fare meglio di Jack Dorsey & co. E se il prezzo da pagare sarà un Twitter senza Severgnini, ce ne faremo tutti alla lunga una ragione.


Andrea Minuz

  

Musk e la Cina: il cinguettio non innocente di Jeff Bezos

“Una domanda interessante: il governo cinese ci ha guadagnato con i recenti cambiamenti in town square?”.  E’ il cinguettio non innocente con cui Jeff Bezos, il re di Amazon, ha salutato a caldo lo sbarco del rivale Elon Musk nella prima “piazza della città” virtuale, ovvero Twitter, i cui cinguettii possono far più male delle cannonate. L’accusa di Bezos è fondata solo su un sospetto: a differenza di altri Big del business Usa, Musk è solidamente radicato in Cina, grazie alla fabbrica di Shanghai che continua a operare nonostante il lockdown. Sta a vedere, insinua il numero uno di Amazon in guerra con Musk per le commesse spaziali della Nasa, che quel furbacchione in arrivo dal Sudafrica si prepara a vendere un’immagine più gradevole del regime per favori nel business- Un’insinuazione pesante cui Musk ha probabilmente minacciato di reagire con le maniere forti, a giudicare dalla rapidità con cui Bezos, uno che non è abituato a tornare sui suoi passi, come dimostrano i continui conflitti con l’allora presidente Trump, ha fatto marcia indietro. Novanta minuti dopo il primo cinguettio il numero uno di Amazon ha corretto il tiro: “La risposta alla  domanda è  probabilmente no. Musk è estremamente bravo a navigare in mezzo a questo tipo di complessità”. Difficile spiegare la correzione di rotta, salvo tener conto del nervosismo suscitato dall’acquisto del “giocattolo” che nelle mani di Musk (che di suo già conta 82 milioni di followers) minaccia di creare uno sconcerto. Lo conferma il recente confronto tra il creatore di Tesla e Bill Gates. I due erano pronti a sviluppare assieme iniziative per la tutela dell’ambiente. Poi, ha rivelato via Twitter l’incorreggibile Musk, l’intesa è saltata. Il motivo? “Ho scoperto – spiega Musk – che lui stava vendendo allo scoperto titoli Tesla per mezzo miliardo”. Perciò “gli ho scritto che, caro Bill, non posso prendere sul serio il tuo impegno sul cambiamento climatico quando hai una posizione corta enorme contro Tesla, la società che fa di più per risolvere il problema”.

Ugo Bertone

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