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Occhio alle occhiaie

Oltre il gossip e Boccia: la formidabile sfida degli occhiali intelligenti allo smartphone

Giuseppe De Filippi

Sono una delle poche presenze nazionali nel mercato della grande tecnologia, in grado di renderci microregisti della nostra quotidianità, semplificando le nostre azioni ma senza distinguere lo sguardo dall'inquadratura: una storia italiana, con un futuro commerciale ancora tutto da scrivere

Difficile e anche pericoloso inerpicarsi nell’esegesi del pensiero di Maria Rosaria Boccia, anche perché la fiera promotrice di intergruppi parlamentari è sempre pronta e anche tagliente nella smentita, autoprodotta via social o affidata a professionisti via intervista, di qualunque tentativo di interpretazione delle sue intenzioni o di interpretazione della sua volontà, per non parlare della decifrazione dei suoi rapporti personali. Ma a volte vale la pena rischiare, tenendoci comunque in un terreno non troppo scivoloso, e allora si può provare ad affermare che se la dottoressa Boccia avesse voluto fare davvero la spiona in Parlamento, con dedizione e aspettative di risultati, non avrebbe usato i normalissimi occhiali con telecamera per i suoi video o per documentare le sue rivelazioni. Il mercato offre decine di tipi diversi di telecamerine nascoste o camuffabili, strumenti usati in una lunga serie di notissime inchieste, in cui sono proprio la clandestinità e il nascondimento dello strumento usato per riprendere, catturando ignari ma ostentati saluti romani o altre cosacce, a diventare centrali nel racconto giornalistico, finendo per costituire un format dell’informazione un po’ corsara, tanto che con le immagini sporche e mosse catturate dall’aggeggio invisibile una qualsiasi situazione di vita normale e di ordinari rapporti umani, se corredata da un audio appena appena ammiccante, finisce per sembrare qualcosa di torbido.
 

                  

 

Un modello che avrà esercitato qualche forma di fascino sulla arrembante mancata consulente del ministro della cultura, ma restando in quella generale superficialità caratteristica dell’era degli e delle influencer. E sommandosi, in modo ancora un po’ confuso, con un altro modello che su di lei deve aver funzionato e forse aver preso il sopravvento grazie a una suggestione più antica, quella della Bond girl, perché non c’è nulla di più bondiano degli strumenti che svolgono mansioni diverse da quelle per cui sono normalmente conosciuti. Automobili che navigano, penne che sparano, libri che registrano e, appunto, occhiali che fanno riprese. Ma il suo probabilmente era un bondismo superficiale, in cui l’apparenza e i modi da Mata (Genn) Hari, con l’ovvio intento di coltivare il proprio misterioso fascino presso il grande mercato giornalistico e televisivo, vincevano sulla concretezza dell’attività di raccolta di informazioni. Anche perché, insomma, uno si chiede alla Camera cosa ci sarà mai da mostrare per scandalizzare l’opinione pubblica e perché sprecare tanta scaltrezza e rischiare anche personalmente per catturare frame video tra le stanze di qualche gruppo parlamentare. Sì, nell’esaltazione dei giorni infuocati dell’affaire tutti abbiamo creduto per un attimo che a Montecitorio si svolgano attività indicibili, consessi da tenere nella riservatezza, e ci si dedichi a oscuri traffici, tra rivelazioni di segreti di stato e spartizioni di influenze. Ma la frequentazione di quelle stanze e corridoi, anche se molto occasionale, avrebbe dovuto aprirci gli occhi rispetto a una pur così inebriante illusione.

E invece giù titoli sulle riprese fatte utilizzando gli occhiali con telecamera, con la memoria di tutti quelli un po’ più vecchiotti che correva alle pubblicità sugli occhiali a raggi X delle riviste per ragazzi anni Settante. Uh, che impressione l’intrusa, ma invitatissima, che si aggira per gli uffici parlamentari con gli occhiali capaci di immortalare questo o quel deputato, come se non vivessimo in una specie di continua documentazione in diretta o in differita e come se non alimentassimo da soli o con la collaborazione di persone anche solo occasionalmente vicine giganteschi archivi intestati a noi stessi. La stessa Boccia riprendeva e documentava incontri e riunioni con il suo cellulare, senza che nessuno, ministri, dirigenti, amministratori locali, passanti con qualche incarico, avesse molto da ridire. Il cellulare, come è logico di fronte a numeri preponderanti, ha vinto rispetto ai tutori della riservatezza, specialmente quando ci si trova in gruppo e con la convinzione, mai completamente fondata, di non avere nulla da nascondere. L’uso per riprese video del cellulare, come quello degli occhiali, è segnalato. Per il primo vale più il comportamento di chi lo usa come indicazione della ripresa in corso. Tenuto a una certa altezza, orientato verso un obiettivo, denuncia (ironia) la probabile attività di acquisizione video. Ma con un certo tasso di ambiguità. Perché potrebbe essere rivolto verso l’esterno o verso sé stessi, oppure verso qualcosa che sta alle spalle di chi riprende, con una specie di finto selfie. Potrebbe trasmettere in diretta su qualche piattaforma o acquisire in memoria.

Per gli occhiali si è fissata, anche in autotutela da parte dei produttori, la regola della lucina accesa a segnalare l’attività video. Precauzione apparentemente tutta giuridica, per precostituire lo scarico di responsabilità e stabilire che è solo l’utilizzatore a dover rispondere di eventuali usi impropri, contestazioni o della pubblicazione e diffusione illegale di immagini. Il progetto commerciale di Essilor-Luxottica sugli occhiali connessi, trasformati in un’interfaccia di tutte le funzioni di un cellulare, non nasce in nome del sostegno allo spione che è in noi ma per una ben più semplice e forse ingenua (e quindi con enormi potenzialità di mercato) considerazione di comodità. Si può essere o non essere d’accordo ma per Leonardo Del Vecchio il cellulare sempre più caricato di compiti da svolgere, ma ingombrante e nemico dei tendini delle nostre mani, aveva il destino segnato. Alla sua sostituzione attraverso una montatura di occhiali piena di intelligenza ha lavorato fino agli ultimi giorni della sua vita e in stretta collaborazione con Mark Zuckerberg. Per una specie di missione commerciale ma anche umanitaria, il cui obiettivo era la liberazione delle nostre mani e della nostra gestualità. E anche della nostra attenzione. Perché se gli occhiali diventano anche telecamere e possono registrare o trasmettere in diretta a qualcuno di individuato o a chiunque voglia seguirci sulle piattaforme social allora cambia qualcosa di piuttosto importante, perché il nostro sguardo e quello dello strumento che usiamo per riprendere non si possono più distinguere, sono esattamente la stessa cosa, con gli stessi tempi, le stesse angolazioni, con un po’ di tecnica anche le stesse messe a fuoco. Non siamo più bravi o meno bravi imitatori degli operatori professionali o microregisti di eventi cui ci capita di assistere.

 

                                                         

 

Ma, per restare nel parallelo cinematografico, restiamo incastrati, forse felicemente incastrati, in una specie di perenne e lunga soggettiva. Che richiede meno sforzi nell’identificazione dell’inquadratura giusta, perché ci pensa già il sistema rodato che collega i nostri occhi al nostro cervello e il tutto ai nostri movimenti e all’equilibrio, e perciò rivela forse più cose di noi che osserviamo di quelle che vorremmo mostrare con le riprese. Siamo costretti a rivelare cosa guardiamo e come guardiamo. Siamo un po’ spie, se troviamo qualcosa che lo merita, ma soprattutto siamo spiati, mettendo a nudo i movimenti dei nostri occhi e il modo in cui guidano i nostri movimenti, riveliamo cosa cattura la nostra attenzione. L’intelligenza artificiale lavora dall’esterno per tentare di capire cosa e come guardiamo, il caso più trattato, anche perché dà occasioni immediate di buoni affari, è quello degli scaffali dei supermercati. Gli occhiali con telecamera possono rendere, con il consenso di chi li indossa, tutto molto più semplice, dati e informazioni (scontando l’effetto di autocontrollo inevitabile quando si sa di lasciare traccia, ma non sarebbe difficile rendere non identificabile il mittente, diciamo così, dei dati) potrebbero affluire direttamente a chi deve analizzarli. 


La partita commerciale è aperta e durissima. Con gli occhiali intelligenti c’è anche una delle pochissime presenze italiane (e anche europee) sul mercato della grande tecnologia elettronica diffusa. La sfida al ruolo centrale del telefono cellulare forse non viene pienamente percepita ma è qualcosa di titanico. Mentre gli investimenti per rinnovare la gamma di smartphone e prodotti assimilabili vari continuano a crescere e sul mercato arrivano novità con cui si tenta di smuovere un mercato saturo ma sempre in cerca di qualche scusa per rinnovare l’attrezzatura. Forse funzioneranno gli schermi divisi per due o per tre, o funzioneranno le funzioni integrate con l’intelligenza artificiale. I telefoni restano al centro dell’offerta, mentre la lenta ma progressiva crescita di un prodotto nuovo osa sfidarli. Ci voleva la forza di uno come Del Vecchio, arrivato a superare traguardi che non avrebbe neanche sognato di vedere, per provare a cimentarsi in una sfida del genere. Il mercato li sta studiando. Non c’è stato un successo travolgente ma neanche un buco nell’acqua. Il segnale di attenzione arriva dai consumatori più esperti, il manipolo di appassionati che fa da collaudatore e da primo selezionatore per tutti i prodotti innovativi capaci di rompere abitudini consolidate.

La prova è nel molto maggiore gradimento della seconda generazione di occhiali intelligenti legati alle piattaforme gestite da Meta (Instagram e Facebook). Francesco Milleri, amministratore delegato di Essilor Luxottica, ha detto che gli occhiali di nuova produzione, modificati e migliorati soprattutto nell’applicazione dell’intelligenza artificiale, hanno venduto in pochi mesi più di quanto abbiano venduto in due anni gli occhiali della precedente e prima proposta al mercato. E quando uno strumento nuovo ha questa forte reattività nelle vendite rispetto a miglioramenti incrementali le aspettative sul futuro commerciale diventano positive. La prima generazione era stata proposta come Ray-Ban Stories, legando anche nel nome il loro uso alla destinazione del più popolare canale di Instagram. Stiamo facendo le stories, si è detto con ironia, rispetto a chi puntava a “fare la storia”, nei giorni caldissimi della centralità mediatica della dottoressa Boccia, anche se lei stessa preferiva diffondere le sue allusioni e i suoi ammiccamenti attraverso la prosa, mentre di video e registrazioni faceva un uso più strategicamente parsimonioso. Nella seconda generazione il legame esplicito con l’uso per le stories di Meta è saltato, forse perché non c’è più bisogno di indicare quasi didascalicamente a cosa servono i neo-occhiali e per lasciare più opzioni aperte a un prodotto che aspira a entrare nelle abitudini di tutti.

Interessante che nella sfida commerciale mondiale si trovino alleati due estremi della filiera, quello che produce gli strumenti di supporto, come sono diventati gli occhiali rispetto all’uso in integrazione con lo smartphone, e quello che dà gli spazi (e lucra sul loro utilizzo) per condividere dati, video, immagini, informazioni e chiacchiere varie. La partita del valore vede sempre in campo, usando le vecchie definizioni, software contro hardware. L’occhialeria si è infilata nel match con una specie di invasione di campo. Agli occhiali manca ancora il nome d’uso, quello vincente, la parola che definisce e dà senso all’oggetto. Anche i cellulari non sappiamo ancora bene come chiamarli. Smartphone è partito come definizione commerciale per poi diffondersi a tutti i produttori, ma nessuno veramente usa smartphone nel linguaggio corrente. Resiste, con la sua patina boomer, “telefonino” e ha il ruolo non di vero vincitore ma di reggente l’uso di “cellulare”, che però sconta una certa perdita di senso, perché punta su un aspetto legato alle reti di trasmissione dati e non sulle funzioni per cui lo usiamo davvero. Per gli occhiali, qui li abbiamo definiti intelligenti (che sarebbe una specie di smart) o neo-occhiali, la questione è aperta. Potrebbe vincere un nome commerciale e travolgere tutto, restando nella memoria collettiva, o una parola legata all’utilità. Per ora non sapremmo sbilanciarci verso nessuna previsione. La strada per il pieno successo è ancora lunga e piena di trappole. Un giorno, forse, usandoli con l’ordinarietà con cui ora teniamo in mano un cellulare, ci ricorderemo di questo breve periodo del loro protagonismo gossipparo. O forse non ce ne ricorderemo.