"E' così, però...". Ecco come si perpetua la liturgia del talk populista
D'Urso, Giordano e Giletti alle prese con le chiacchiere da bar sull'epidemia, in barba agli scienziati. Abbiamo perso la lucidità e ora il dubbio è diventato senza fondamento
Questa pandemia cambierà tutto, dicono. Tranne certo giornalismo da talk (e non soltanto). Piccolo excursus su temi e stili di alcuni show in questi giorni. Il 22 marzo il celebre video di Cristiano Aresu sul “miracoloso Avigan tenuto nascosto al resto del mondo” va in onda da Massimo Giletti, su La7. Il conduttore dubbioso chiede spiegazioni al virologo Fabrizio Pregliasco: “Ci sono tante opzioni, ma non è la soluzione finale”. Questione chiusa. No. Poco dopo Giletti dà la parola a Vittorio Sgarbi: “Lo avete taciuto! Lo avete taciuto!”. Pregliasco cade nella trappola, alza la voce per dire che sono solo sciocchezze. Giletti gongola, il video rimbalza sui social. Oh, la lite da talk, uno degli stilemi più abusati della nostra tv, di cui Sgarbi è maestro. Tono enfatico, montaggi choc, domande pulp, complottismo e allarmismo: ci sono tutti i soliti ingredienti aggiornati alla fase pandemia. Sì, magari ci sono qualche servizio e qualche medico in più, ma l'impaginazione cambia poco.
Il 25 marzo Mario Giordano a "Fuori dal coro" mostra l'altro video virale della settimana, quello sul coronavirus creato in laboratorio dagli scienziati cinesi. Giordano interpella Massimo Galli, dell'ospedale Sacco di Milano, e quello smentisce che il virus sia nato in provetta. Questione chiusa? No. Poco dopo Giordano spiega: tutti dicono che il virus non è nato in laboratorio però.... Basta un però e bisogna interpellare Sgarbi.
Il 29 marzo Barbara D'Urso fa la combo. Prima tocca al video sul virus creato dall'uomo: Gianluigi Nuzzi e Giovanni Rezza, dell'Istituto Superiore di Sanità, si rimettono a spiegare tutto da capo, però Alessandra Mussolini insiste sul complotto cinese. Poco dopo tocca al video di Aresu (ancora!), che viene anche intervistato, e Rezza deve ricominciare a spiegare... Non se ne esce. Ma non è possibile uscirne. Il giornalismo populista (ormai dilagante non solo in tv) non può cambiare nemmeno durante la pandemia. Perché siamo tutti Aresu. Che alla domanda sul perché abbia fatto quel video, risponde così: “Sono un cittadino che ha avuto una notizia e aveva l'obbligo morale di scendere dai propri amici al bar e di darla”. Non è la più sensata descrizione di molto giornalismo (e di molta politica)? Non è per questo che il suo video è stato ripreso da tutti, perché parla lo stesso linguaggio dei media (e della politica)? C'è tutto quel buon senso di pancia (spesso in malafede) che ci pervade da anni. E poi è proprio della tv aprire un dibattito infinito e non dare mai certezze.
Secondo John Ellis, professore di media alla Royal Holloway di Londra, il continuo movimento interpretativo è infatti una delle peculiari caratteristiche del mezzo televisivo in diretta. Una volta tutto questo ci pareva democratico, e in fondo lo era, anzi lo è. Il dubbio è vivificante, se lucido però. Solo che abbiamo perso la lucidità, e il dubbio è diventato un “però” costante senza fondamento. Il meccanismo di cui parla Ellis si ciba ormai volutamente di posizioni estreme, da bar, sensazionaliste. Anche adesso, anche in questa situazione. Anzi, a maggior ragione. Non è la singola fake news che ci uccide, è il panorama mediale che, aprendosi a ogni posizione, mettendole tutte sullo stesso piano, non arrivando mai a un punto fermo, mescola il vero e il falso e ci lascia confusi. Non sappiamo a cosa credere, a chi credere, perché credere. La scienza viene di nuovo ridotta a posizioni non a ragionamenti. Così non ci resta che la paura. E non ci resta che pregare. Matteo Salvini e Barbara D'Urso intonano l'Eterno Riposo. La liturgia, ecco cosa conta. L'unica certezza. Il ripetersi magico dell'identico. Soprattutto del talk populista.