Il caso La 7
L'oligarca involontario Urbano Cairo, editore bifronte
Da un lato il Corriere della Sera con la barra dritta contro la guerra di Putin. Dall’altro La7 e il suo caos feudale di talk filorussi. Conviene correre il rischio di farsi confondere con Byoblu?
Trattare i telespettatori da bambini è un vecchio riflesso che speravamo scomparso”. Ai primi di marzo (la “de-nazificazione” putiniana era iniziata da un pezzo) Corrado Formigli su Facebook faceva professione di schiena dritta: “Siamo giornalisti, non generali”. Dopo aver lanciato in orbita come due sputnik Alessandro Orsini e Donatella Di Cesare. Vecchie e nuove talking head del circo putiniano. A “DiMartedì” Giovanni Floris ha ripescato un vecchio arnese dell’anti americanismo combattente come Fulvio Grimaldi: “Non ci fosse stata la Nato non avremmo avuto dal ’45 a oggi una cinquantina di guerre e colpi di stato e non avremmo avuto 50 milioni di morti”. Senza colpo ferire, a “L’aria che tira” Myrta Merlino lascia il microfono aperto al sociologo ispirazionale dei grillini, Domenico De Masi: “Quando dite con tanta gioia che in Russia c’è censura qui è peggio”. Tempo fa Fedele Confalonieri aveva spiegato al Foglio l’arte del disincanto: “Il talk-show deve fare casino, sennò chi lo guarda?”.
Siamo al giorno 74 della guerra, e persino i giustificazionisti del nullismo etico televisivo hanno incominciato ad accorgersi che i talk sono un male grave. Anche se Floris, intervistato da Aldo Cazzullo, prima firma del quotidiano del gruppo e non si capisce se molto d’accordo, risponde: “I talk esistono proprio per questo: mettere a confronto idee diverse”. Tra mettere a confronto le idee e aprire il rubinetto alla propaganda, la differenza dovrebbe notarsi anche senza la guerra. Persino il Copasir, ridotto a una specie di Vigilanza Rai, passa il suo tempo allarmato a controllare i background accademici degli ospiti più scalmanati a difesa di Putin (forse sono solo dei fessi, forse basterebbe trasferirli tutti a Zagarolo).
E’ vero che la propaganda passa anche sui giornali – ma ormai la regola non scritta è che tanto i giornali non li legge nessuno – e moltissima passa sui social, ma lì l’unica regola resta il far west. Quello che passa in televisione sembra così essere l’unica cosa che fa opinione. Quindi tutti a preoccuparsi degli ospiti, a indignarsi se gente senza titoli propala menzogne senza filtro. Nella sintesi di Aldo Grasso sul Corriere: “Il senso più stringente dei talk consiste nel trasformare in freak i suoi protagonisti”. Ma la scusa è sempre quella: non siamo generali. La frankesteiniana giornalista russa Nadana Fridrikhson, che fa la spola in ogni studio di La7, l’altro giorno in quello di Floris è sbottata in un’affermazione lunare: “Se non mi permette di rispondere la considero una censura in una televisione europea”. Strano ma vero, dopo 70 giorni di guerra il pubblico è scoppiato a ridere. Buon segno, forse persino il pubblico ha più senso della realtà dei conduttori. Ma la vera domanda sarebbe: che la invitano a fare?
In questa aria in cui vale tutto, in nome di una peggio che malintesa libertà di espressione, ci si preoccupa dei talk e degli ospiti. Nessuno però che provi a porre la questione che sta a monte: e gli editori? Esiste un editore in grado di garantire non tanto “il controllo” sull’informazione, che nessuno ovviamente pretende, ma quantomeno la qualità e genuinità del prodotto? Galbani vuol dire fiducia. Dove c’è Barilla c’è casa: ci fidiamo di ciò che compriamo perché dietro c’è un’azienda affidabile. Ma dove c’è Urbano Cairo? Perché sì, non giriamo intorno: l’imputata numero uno della deriva putinista è La7, proprietà dell’editore che, in un enigma di sfinge, è anche editore del maggiore quotidiano italiano. Si può mandare in onda, mentre i russi radono al suolo Mariupol, la “voce” della propaganda russa? Si possono inventare esperti di partigianeria come Orsini e Di Cesare o richiamare in servizio propagandisti del passato come Michele Santoro (“voglio che Putin venga processato, ma il nostro maggiore nemico non è lui, è la guerra”). Ma la domanda all’editore che ha all’attivo la maggior percentuale di trasmissioni votate alla “complessità” russa porta con sé la domanda sul profilo indecifrabile dell’editore bifronte.
Rewind. Quando nel 2013 Cairo vara l’acquisto di La7, e il suo parco giornalisti e collaboratori era terrorizzato dall’arrivo di quello che sembrava un Berlusconi meno patrimonializzato, si affrettò a dire che il suo unico obiettivo era il profitto (La7 perdeva 100 milioni all’anno da 10 anni). “La linea editoriale non è affatto in discussione. Non do via i giocatori migliori, quelli che creano ascolto, che ci danno visibilità sul mercato”. Restarono Mentana, Santoro, Gruber, Formigli. Poi a poco a poco la potatura di bei nomi c’è stata, tra le nuove star di fatto si è aggiunto solo Floris. Ma la linea editoriale non è cambiata, anzi si è radicalizzata prima sul grillismo e poi sulla gauche descamisada. Ultimamente però, va detto, Giuseppe Conte è un po’ bullizzato, si vede che ormai conta poco: prima un pestaggio senza complimenti da Lilli Gruber, per una volta senza il soccorso dei soliti ospiti in quota Travaglio; poi la gag non brillantissima di Friedman che pulisce la sedia a “L’Aria che tira”. Così restano i descamisados. Gruber è da tempo una tribuna appaltata alle firme del Fatto, Floris è stato il creatore della “eurexiter” Di Donato, della fase trash di Cacciari. Anche se oggi il più sulle barricate, forse nello spirito del maestro Santoro, è Formigli (anche se su Putin le idee di Formigli, così come quelle di Floris e Gruber, per fortuna sembrano essere anni luce distanti da quelle di Santoro).
Nei trascorsi anni bui, per indicare il mix populista, trumpiano e No vax che emergeva da quella rete, era invalso un termine polemico: “retequattristi”. Ma stranamente nessuno ha mai usato il termine “setteristi”. E anche adesso si assiste a un fenomeno ideologicamente curioso. L’intervista di Rete 4 a Lavrov può essere stata un mezzo infortunio, per come è stata condotta. Ma dopo due mesi di guerra in Ucraina, e di propaganda televisiva in Italia, l’accanimento è scattato solo contro Mediaset. Furio Colombo, che pure di editori potenti e reticenti s’intende, ha pontificato: “Quello che si è verificato non è un grande scoop giornalistico ma è l’accordo tra due potentati, l’editore e l’intervistato”.
Persino Enrico Letta, bravo sulla guerra ma di cui non si ricorda mezza presa di posizione su La7 né tantomeno su Bianca Berlinguer, la figlia dell’uomo dello strappo da Mosca nonché suo predecessore politico, si è sentito in dovere di buttarla sul berlusconismo: “Buon lavoro ministro Lavrov. L’abisso” e di liquidare in un hashtag, segno di disprezzo, “#Retequattro”, lo “spot da propaganda”. Si aspettano hashtag liquidatori anche per “#Cartabianca” che voleva mettere sotto contratto Orsini. Può darsi che Urbano Cairo abbia semplicemente imparato bene, a differenza di Berlusconi che non l’ha mai capita, la regola aurea italiana: pas d’ennemis à gauche. Blindarsi a sinistra e vivere senza scossoni. Ma proprio qui si pone l’enigma. Cairo è un raro esempio di maverick italiano, nel senso nobile della parola. Un irregolare e una testa libera nel mondo dei poteri editoriali, che ha dovuto scalpitare e scartare di lato per superare quei micidiali cavalli di Frisia che sono i salotti buoni.
Con l’acquisizione del Corriere della Sera alla fine riuscì a mettere nel sacco blasonati poteri deboli e indebitati, che (volentieri) gli lasciarono un gruppo onusto di cambiali. La mission dell’editore che guarda persino gli scontrini del caffè era chiara. In pochi anni di forbici, di qualche sverniciata pop, di guida affidata al solido e diplomatico Luciano Fontana, tutto il contrario della controparte direttoriale e un po’ narcisa tipica della storia di via Solferino, le cose si sono assestate. Fino al noto pasticcio. Mercoledì scorso la Corte d’appello di Milano s’è riservata di attendere ancora un po’ nella decisione sul caso Cairo-Blackstone. Nel frattempo a New York attende la causa risarcitoria intentata da Blackstone contro Rcs per 600 milioni di dollari. Un po’ mal consigliato, un po’ carrarmatino nel gran risiko delle finanze milanesi, maverick Urbano aveva sfidato il colosso americano, e Rcs rischia di finire sott’acqua. Anche se lui è tranquillo, ha ripetuto nei giorni scorsi che Rcs sta bene, mentre La7 ha chiuso il 2021 triplicando il risultato netto. Ma ai castelli di carta (stampata) basta un colpo di vento. Anche se il Corriere ha consolidato il parco inserzionisti, Cairo notoriamente non è un editore invisibile, e da outsider che era ha saputo nel tempo costruire un sistema di relazioni solido. Ma il mondo là fuori è una tale sfida, che Cairo ha dovuto incarnare la sua doppia natura: Maverick è anche il nome del famoso giocatore d’azzardo gentiluomo del cinema, e giocare su due tavoli è il prezzo della partita.
Da una parte è l’editore del Corriere della Sera, che sta facendo un lavoro molto assennato sulla guerra. Verrebbe da dire, per la prima volta dopo il tempo infinito della “casta” e di altri svarioni, che a sfogliarlo alla mattina si sente di nuovo il profumo di classe dirigente. Grande copertura dal fronte e la barra dritta sulla linea politica, pur con le necessarie nuance, con qualche discreta ma precisa presa di posizione di Fontana e la ciliegina della sua intervista al Papa. Per chi abbia memoria, erano state decisamente più movimentate le gestioni di guerre passate, dall’Iraq alla Serbia, c’era da tenere un orecchio sempre teso a una sinistra anti americana allora forte. Oggi, forse anche perché quel tipo di sinistra è priva di credibilità e di voci autorevoli – o dovremo rubricare tra le voci autorevoli il prof. Canfora, collaboratore culturale? – è divenuto più facile non dare spazio a quelle aree.
L’enigma è l’altro tavolo da gioco. La domanda sulla responsabilità. Non è un editore che non si faccia sentire, al Corriere. Possibile che non abbia mai avuto niente da dire, in anni, sulla linea editoriale descamisada della sua televisione, che è ormai un caso di studio. Certo, anche Mediaset è sempre stata un caso di studio, almeno al tempo del Cav. imperante. La Rete 4 di Fede, le sliding doors tra le redazioni e gli incarichi politici. Certo, sappiamo che la Rai può essere anche peggio, ma è pubblica, e soprattutto ha ragione Maurizio Mannoni: il problema della Rai è che è una grande azienda senza più un esoscheletro di comando. Ma La7, piccola emittente che aveva sempre scommesso sull’informazione esigente, proprietà di un imprenditore cui non scappano nemmeno gli scarpini di Gallo Belotti?
La7 ha sempre avuto una struttura feudale, ma ormai da tempo è un panorama balcanizzato. Da una parte, ben protetto da trincee di credibilità anche personale, il regno di Enrico Mentana. Intervistato en large da Salvatore Merlo sul Foglio, ha ribadito la sua visione di giornalismo. La guerra ha scelto di seguirla con l’intensità di un martello, ma con informazioni e pochi commenti autorevoli. Niente ambiguità: “Mi onoro oggi di non invitare chi sostiene o giustifica l’invasione russa in Ucraina”, ha scritto su Facebook. Non serve specificare i destinatari: “Scrissi qui cinque mesi fa che mi onoravo di non aver mai ospitato nel tg che dirigo nessun esponente dei No vax. E uso quelle stesse parole per rivendicarlo, senza dover aggiungere nemmeno una virgola”. Ma al dì la del suo ponte levatoio? Il feudo di “Otto e mezzo” di Lilli Gruber è intoccabile. I suoi ospiti fissi, quelli che danno il tono, sono i Travaglio e gli Scanzi. Sulla guerra l’ex inviata dei tempi Rai ha ritrovato guizzi dalla parte giusta; ma ogni tanto pesano i riflessi condizionati di quando raccontava l’Iraq di Bush con smorfie di disgusto.
Quando Sigfrido Ranucci litigò in Rai non trovò miglior porto per difendersi che la trasmissione di Floris: un crossover aziendale strabiliante, e non solo per l’ente pubblico. Il più pugnace, sarà il richiamo della foresta, è invece Formigli. Intervistato da Concetto Vecchio su Repubblica, dice che non c’è rischio di fake news, “gli italiani sono scettici per natura, amano la complessità”. Peccato che, a furia di complessità, nell’ultima puntata di “Piazza Pulita” il sondaggio sul gradimento italiano di Putin recitasse: gennaio 69 per cento, aprile 82 per cento. Feudatario e libero battitore, c’è poi Massimo Giletti. L’idea di rendere pop la guerra, la diretta con l’elmetto, non è stata una gran trovata; alterna posture da castigarussi a serate in cui mette in fila Salvini, Santoro e Soloviev. Idee da show generalista, e la differenza con i Floris e i Formigli, che diversamente puntano su un prodotto giornalistico e non d’intrattenimento, è netta. Davvero non esiste un tema legato alla direzione della linea editoriale? A sovrintendere al paesaggio balcanizzato c’è un direttore, Andrea Salerno, scuola veltroniana, scuola Rai 3. A Cairo deve rendere conto soprattutto sui numeri, ovvio, e Cairo coi numeri è fissato. Per il resto: o gli va tutto bene, o non ha potere sui suoi feudatari. Ma forse è la vera strategia di Cairo: non bloccare nessuna linea produttiva, maneggiare con guanti diversi i diversi prodotti.
E il rapporto con l’ammiraglia del gruppo? Sinergie? Sarebbe il minimo attendersele. Invece. Sono rare le ospitate di firme importanti del Corriere, per non dire del direttore Fontana. Il più assiduo è Beppe Severgnini, che non è però un editorialista politico; da Mentana c’è spesso Tommaso Labate (ma è anche interista). Mondi separati. Per volere di chi? Invece la testata più rappresentata a La7 è il Fatto quotidiano. Travaglio è di casa, ed è stato a lungo un avatar dei Cinque stelle prima di passare in servizio attivo dal fronte (quello dei cattivi). Un surplus di visibilità difficile da giustificare in termini esclusivamente di informazione. Pas d’ennemis à gauche, anche qui. Anche se poi è curioso notare, nel mazzo dell’informazione sull’affaire Blackstone, che la testata più entusiasta nel sostegno dell’editore del Corriere è proprio il Fatto. Nel luglio scorso un articolo da curva sud: “C’è un pezzo della Milano bene, o meglio dei poteri forti, che ha gioito al verdetto del collegio arbitrale sulla vicenda Blackstone-Rcs”. E qualche giorno dopo: “Altro che funerale: Cairo ha già in serbo qualche sorpresa. La notizia della ‘morte’ di Cairo appare fortemente esagerata”. Scritto da un giornale che di solito gli editori dei “giornaloni” li massacra a prescindere, è notevole.
Cercare sponde nella sinistra anche giustizialista può essere il solito gioco del maverick. Però, vivvaddio, si tratta pur sempre dell’editore del primo quotidiano italiano, molto leale in questa fase col governo super atlantista di Mario Draghi. Può essere che un imprenditore così importante sia tanto indifferente a quello che fa la sua altra mano? Floris, a Cazzullo, ha dato una risposta che sarà piaciuta all’editore di entrambi: “Non trova insopportabile il narcisismo da talk?”. “Non confonda l’effetto con la causa. Quelli che lei chiama narcisi sono il prodotto della trasformazione del paese; non l’origine”. Commento della politologa Sofia Ventura, su Twitter: “Caro Floris, nutri i nuovi mostri No vax e pro Putin. Hai il coraggio di pontificare?”.
Gli analisti di economia televisiva concordano sul fatto che il mercato grillino-populista-no vax avesse una sua quota. Ma davvero esiste un mercato, una filiera pubblicitaria, una fidelizzazione dei consumi in chiave putiniana? Si può vendere il proprio regno di credibilità per il cavallo di un’audience fatta a furia di Orsini e Bannon? Cairo non rischia di trasformarsi, dal maverick indipendente che è sempre stato, in una sorta di oligarca involontario (che non è la sua natura di liberale), e per di più di diventarlo gratis (che non è la sua natura di imprenditore)? Santoro si è trasferito per la famosa serata “Pace proibita” su ByoBlu, l’emittente dei complottisti. In un parterre in cui il più equilibrato sembrava Freccero, Sabina Guzzanti strillava: “La censura oggi si chiama linea editoriale che impedisce che i programmi siano pensati da sceneggiatori che pretendano di esercitare i propri diritti costituzionali”. Per una sera, il pubblico dei talk di La7 è trasmigrato sulle scie chimiche (ops, sulle onde televisive) del complottismo putiniano. Conviene davvero, a un imprenditore liberale dei media come Urbano Cairo, che gli spettatori della sua televisione a un certo punto non riescano più a distinguere La7 originale dalla sua trasmigrazione su ByoBlu?
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