Il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese (foto LaPresse)

Madame Viminale

Marianna Rizzini

Luciana Lamorgese, prefetto non di ferro ma “soldato” dello stato che non parla ai social ma cammina, vede, agisce e, se può, risolve

Sentirsi come un soldato, quindi al fronte, ma al di sopra delle parti. In tempi che sembrano lontanissimi, quando ancora era difficile immaginare quello che sarebbe successo dalle elezioni politiche del 2013 in poi, per non dire di quelle del 2018, Luciana Lamorgese, attuale neo ministro dell’Interno nel governo Conte bis, prefetto in pensione dalla lunghissima carriera, intervistata da questo giornale così descriveva la sua vita da persona “al servizio dello stato”. Vita da prefetto, alto funzionario la cui figura ha ispirato registi e scrittori: da Elio Petri, che in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” mette in scena i prefetti come replicanti, file di uomini tutti uguali, identici nell’andatura e nei fazzoletti bianchi nel taschino, a Leonardo Sciascia – che nella sua “Invenzione di una prefettura” (Bompiani) racconta la storia della prefettura di Ragusa – a Pasquale Squitieri de “Il prefetto di ferro” fino a Luisa Adorno, che nell’“L’Ultima provincia” (Sellerio) racconta l’idiosincrasia di un prefetto di provincia per un cambiamento che può arrivare a rompere e corrompere ritmi e sostanza di un’esistenza scandita dai riti di chi deve dire sempre “forse” per non avere scocciature, tra cene con i notabili e passeggiate con sorriso controllato lungo il corso del paese. Solo che Luciana Lamorgese, in quell’anno 2012 in cui tutto politicamente doveva ancora succedere, non aveva nulla del prefetto dislocato ai confini di un qualsiasi deserto dei tartari. Aveva già affrontato varie emergenze in quel di Venezia, tra gli operai della Vinyls di Porto Marghera asserragliati sul tetto dello stabilimento e tra le folle di pellegrini che attendevano la visita del Papa in Laguna. E avrebbe affrontato un’emergenza immigrazione a Milano, città dove pure è stata prefetto nei primi anni della sindacatura Sala (e infatti Beppe Sala ha salutato la sua nomina nel Conte bis con un plauso all’“ottima notizia”).

 

Capo di gabinetto con Alfano e Minniti, prefetto a Milano con Sala sindaco. Per l’accoglienza ma anche per gli sgomberi

Senza fazzoletto bianco nel taschino, senza attenzione maniacale al piccolo particolare, senza nulla nell’apparenza che potesse ricordare un prefetto cinematografico o letterario, quasi nascondendosi dietro a una delle sciarpe leggere che compaiono spesso nele foto che la ritraggono, il prefetto Lamorgese, anche avvocato, moglie e madre di due figli, camminava per il suo ufficio al Viminale parlando di sé come di un’osservatrice-mediatrice investita di una sorta di missione: il prefetto non va dove lo porta il cuore, diceva, ma dove lo manda l’amministrazione statale, e anche se il trasferimento improvviso su due piedi non lo rende proprio felice, alla fine quel trasferimento se lo deve far calzare, e lo deve indossare bene come un vecchio abito per poter svolgere il suo servizio. Si definiva “collante tra istituzioni centrali, locali e cittadino” prima che “garante”, Lamorgese, che da capo di Gabinetto, negli anni successivi, ha lavorato al Viminale sia con Angelino Alfano sia con Marco Minniti, per poi diventare lei stessa successore e specchio rovesciato di Matteo Salvini (in tema di immigrazione i due non potrebbero essere più distanti). E qualcosa ricorre, a livello di posizione centrale tra due poli, nella sua storia di “tecnico”, oggi nel governo rossogiallo che due mesi fa in pochi avrebbero dato come fattibile, e ieri come prefetto a metà tra la giunta veneziana comunale del sindaco pd Giorgio Orsoni e quella regionale del governatore leghista Luca Zaia.

 

Lucana, avvocato, figlia d’arte, ha imparato da suo padre le regole del mestiere durante la grande nevicata di Avellino del 1973

Oggi Lamorgese si trova, al Viminale, nel punto esatto di intersezione tra la linea sovranista del predecessore e la linea trasversale del “rivedere i decreti sicurezza”. Intanto c’è una foto: quella che documenta l’incontro di qualche giorno fa tra Lamorgese e Salvini, con sorrisi di cordialità formale e con Salvini che si affretta a commentare, intervistato da Radio Radio, il colloquio con il neo ministro non social-dipendente come lui (Lamorgese era nota, alla vigilia della nomina, anche per non avere un account Twitter): “Io lavoro per risolvere i problemi”, diceva il leader della Lega ed ex ministro, “ho incontrato il nuovo ministro dell’Interno… non sono come quei bambini ai giardinetti che si portano via il pallone. Io amo il mio paese, e se posso essere utile, dare consigli… ma, ahimè, stanno facendo l’esatto contrario di quello che dovrebbero fare”. Perché il problema, visto dal lato Salvini, è che “ci sono dei decreti sicurezza in vigore che prevedono che il ministro dell’Interno firmi il divieto di ingresso nelle acque territoriali per le navi non autorizzate… e la Ocean Viking ha raccolto a bordo 150 immigrati, può arrivare a raccoglierne fino a 400. Se la fai andare e tornare, scendere e raccogliere, ignori la legge vigente e fai l’interesse di qualche cooperativa”. Ma il problema, visto dal lato rossogiallo del governo in cui Lamorgese siede, è quello del bilanciamento tra la linea dura (almeno a parole) di Luigi Di Maio e la “discontinuità” anti salviniana chiesta dal Pd. In mezzo ci sono i rilievi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in particolare sull’obbligo di salvare persone in mare, e l’idea programmatica (programma di governo dei nuovi contraenti) di superare “una logica puramente emergenziale a vantaggio di un approccio strutturale, che affronti la questione nel suo complesso, anche attraverso la definizione di una organica normativa che persegua la lotta al traffico illegale di persone e all’immigrazione clandestina” ma che affronti anche “il tema dell’integrazione”.

 

Quando mediava con gli operai sui tetti di Porto Marghera, e quando a Lampedusa ha cambiato “modo di vivere e di vedere”

Due giorni fa, intanto, Salvini è mediaticamente saltato sui dati degli sbarchi: “Per la prima volta dopo un anno e mezzo, da settembre aumentano gli sbarchi! Complimenti a questi incapaci. E pericolosi. Col passaparola sul fatto che ‘in Italia si sbarca senza problemi’ i trafficanti e i loro complici corrono, caricano e si fregano le mani”. La linea Lamorgese, che da prefetto rivendicava una “apoliticità” oggi difficile da mantenere, per ora invece si intravede sottotraccia, fuori da Facebook, negli indizi che riportano al passato: ha lavorato con Alfano negli anni duri degli sbarchi e poi, anche se non a lungo, con Minniti ai tempi degli accordi con la Libia. Non a caso oggi Minniti definisce “buon inizio” il suo arrivo al Viminale. E se Minniti, qualche tempo fa, intervistato dalla Bbc, diceva: “Abbiamo perso le elezioni per due motivi. Non abbiamo risposto a due sentimenti molto forti: rabbia e paura, e abbiamo perso il contatto con gran parte dell’opinione pubblica”, Lamorgese parla di dominio della paura da quando era prefetto a Milano (“percezione di sicurezza” da parte dei cittadini, questo il suo obiettivo). Sul suo tavolo arrivavano dossier “smistamento profughi” sul territorio lombardo. E poteva capitare che Lamorgese cancellasse gli effetti delle ordinanze firmate dai sindaci leghisti dell’hinterland sulle multe a chi avesse messo a disposizione case o appartamenti per i richiedenti asilo. Ma poteva capitare anche di sentire il prefetto dire “chi scappa dalla fame ha diritto a trovare condizioni di vita migliori” o ribadire che “le espulsioni dei migranti irregolari sono un tema complesso che prevede un’identificazione certa della persona, che spesso è senza documenti, e la collaborazione negli stati di provenienza” o auspicare “la condivisione con i sindaci di un percorso di accoglienza”. E però poi lo stesso prefetto era anche conosciuto in città come “prefetto degli sgomberi” (di case occupate) e delle “operazioni-sicurezza” (sempre con sgomberi) nei pressi della stazione Centrale – motivo questo di diffidenza di una parte della sinistra-sinistra verso di lei. Intervistata dal Corriere della Sera, Lamorgese mostrava il lato law and order: “Gli sgomberi rappresentano una priorità, l’impegno è quello di riportare la legalità, perché la proprietà pubblica e privata sono beni primari da tutelare, sempre con la massima considerazione per le situazioni di disagio economico e sociale. Ogni sgombero ha alle spalle un lavoro complesso che vede il coinvolgimento, nell’ambito del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, di tutte le altre istituzioni per definire insieme le strategie di intervento”. Però, come ha ricordato la Stampa, la stessa Lamorgese, in epoca salviniana, metteva paletti preventivi agli eccessi lessicali: “Assistiamo a rigurgiti di antisemitismo e di razzismo, anche in relazione ai flussi migratori. Io dico che bisogna accogliere nelle regole e non respingere il diverso che può essere un arricchimento per il territorio”.

 

Quando camminava dal Duomo alla periferia per schiarirsi le idee, e quando annullava ordinanze leghiste nell’hinterland

Il ministro Lamorgese è anche donna del sud – nata a Potenza, laureata in Giurisprudenza con 110 e lode, al Viminale dal 1979 – nonché figlia d’arte. Suo padre Italo, infatti, era stato prefetto di Avellino dal 1970 al 1975, e ad Avellino aveva mostrato sul campo alla figlia, durante la grande nevicata del 1973, che cosa significa essere trait d’union tra stato e cittadino. Quel giorno la città fu sepolta sotto una coltre bianca, con la neve che arrivava fino ai balconi, con l’acqua e la luce che mancavano e cento comuni isolati. Il futuro prefetto Lamorgese aveva vent’anni e aveva già deciso quale fosse la sua strada: prevenire, mediare e osservare in prima persona, tanto più che già da ragazza aveva percorso in una sua personalissima “Basilicata coast to coast” le strade della città e della regione natìa. “Camminare da sola le schiarisce le idee”, dice un conoscente. E in effetti Lamorgese, quando era a Milano, come racconta un testimone oculare, “era capace di macinare chilometri dal Duomo alla periferia e ritorno, in cerca di ispirazione”. Ispirazione per azioni volte a dare al cittadino, come ha raccontato Lamorgese stessa, la suddetta “percezione di sicurezza” che per l’ex prefetto conta “più delle statistiche”. La sicurezza deve essere “visibile”, diceva. Se poi qualcuno le chiedeva “qual è stata la prova più difficile della sua carriera?”, Lamorgese rispondeva elencando non soltanto le difficoltà dell’adattamento delle prefetture al taglio delle province, ma alludendo al disagio provato di fronte allo spirito dei tempi moderni: “Questa è un’epoca in cui bisogna reinventarsi, essere più efficienti, a costo di cambiare mentalità”. E per lei il momento di parziale cambio di mentalità è arrivato in una sera dell’autunno 2013, quando si è trovata a Lampedusa dopo il cosiddetto “naufragio dei bambini” (“è stato allora che ho cambiato il mio modo di vedere e vivere le cose”, ha detto). E pazienza se qualche giorno fa il sindaco di Lampedusa Salvatore Martello, nell’apprendere che le autorità italiane avevano deciso di assegnare come porto sicuro alla nave Ocean Viking proprio Lampedusa, è sbottato: “Accoglienti sì, cretini no, l’isola non può essere la soluzione di tutti i problemi”. E però poi pace è stata fatta: Lamorgese l’ha chiamato spiegando il perché di quella scelta, e Martello ha commentato, perché Salvini intendesse, “ecco, finalmente qualcuno dal Viminale ora mi chiama”.

Di più su questi argomenti:
  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.